Apr 182020
 

ascensione

Toccava l’uomo, confessava Dio  . «Otto giorni dopo»: comincia così la seconda parte del racconto evangelico e comincia pure una forma nuova di calcolare il tempo; un computo che non corre più verso il settimo, come nella prima creazione, bensì verso l’ottavo giorno che significa la nuova creazione inaugurata con la risurrezione di Cristo e che per noi cristiani è diventato «il primo di tutti i giorni, la prima di tutte le feste, il giorno del Signore» (CCC n. 2174). Di questo primo ottavo giorno ci è stato trasmesso un dialogo, quello tra Gesù e Tommaso, un apostolo che per qualcuno è il tipo dell’uomo che dubita. Ma cosa vuol dire essere dubbioso? Letteralmente s’intende un essere tentennante, ondeggiante.

C’è chi di questo ne fa uno stile di vita: persone «indecise» sì, ma perché disponibili ad andare dove conviene, o verso ciò che sul momento piace; e anche perché pigre, svogliate nella ricerca della verità, o anche timorose di conoscere la verità. C’è, però, un’altra maniera di essere dubbiosi, ed è quando il dubbio nasce da una coscienza che desidera ben ponderare le cose, come spiegava sant’Agostino (cf. De Magistro, X, 31: PL 32, 1213) e questo vale pure in questioni di fede. Miguel de Unamuno scriveva che «una fede che non dubita è una fede morta» (La agonía del cristianismo, Ed. Losada, Buenos Aires 1938, 22).

Quanto al racconto evangelico sempre Agostino commentava: Tommaso «vedeva e toccava l’uomo, ma confessava Dio che non vedeva né toccava. Attraverso ciò che vedeva e toccava, rimosso ormai ogni dubbio, credette in ciò che non vedeva» (In Jo. Ev. tr. 121, 5: PL 35, 1958). Questo gli accadde perché non gli mancò l’umiltà. Quella, anzitutto, di non isolarsi dalla comunità dei discepoli del Signore. Tommaso non era con loro la sera della Pasqua, ma nell’ottavo giorno era ancora lì cercando nella carità della comunione la forza per la fede. Quella sua presenza nella «casa», come la chiama l’evangelista, e quel suo essere ancora lì nonostante l’iniziale «se non vedo non credo», fu l’umiltà di Tommaso, espressione della sua domanda d’aiuto. Gesù non ci vuole uno ad uno, ma ci vuole in comunione; ci vuole come ci volle fin dal principio il Padre, che «volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità» (Lumen gentium, n. 9). Così Tommaso se lo trovò di fronte, il Risorto! Amo pensare a quell’attimo considerando l’immagine meravigliosa che ce ne ha lasciato il Caravaggio: un volto stupefatto, quello di Tommaso, e un volto amante, quello di Gesù che con la propria mano spinge nella sua ferita il dito dell’apostolo. In effetti, lo stesso Risorto che aveva interrotto lo slancio di Maria dicendole di non trattenerlo, ora si sofferma con Tommaso, anzi lo incoraggia: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco».

Il vangelo non ci dice che l’abbia fatto; ci ha lasciato, però, le parole di quell’incontro: incoraggianti quelle del Signore e, fatta di slancio amoroso, la risposta di Tommaso. Questa scena mi ricorda una confidenza di santa Teresa di Lisieux, che pure conobbe la notte oscura del dubbio. Alla madre Agnese confidava: «Io sono di una tale natura che il timore mi fa indietreggiare, con l’amore non solo vado avanti ma volo» (Ms A 80v: Opere Complete, LEV-OCD, Città del Vaticano-Roma 1997, 204). Così fu per Tommaso. Il Signore non lo rimproverò ed ecco che egli, sentendosi incoraggiato, volò di slancio con un atto di fede: «Mio Signore e mio Dio». Si tuffò così, a capofitto, nelle piaghe del Cristo vivente.

Prima dell’umiltà di Tommaso, però, ci fu l’umiltà di Gesù. D. Bonhoeffer, in un momento in cui su di lui si addensavano le fosche nubi del lager nazista, scrisse: «Incomprensibile abbassamento del Signore verso il suo discepolo dubbioso, il farsi mettere alla prova da lui… “Mio Signore e mio Dio”. Prima di questo dubbioso nessuno aveva parlato così» (Voglio vivere questi giorni con voi [a c. di M. Weber], Queriniana, Brescia 2007, 135). L’umiltà di Cristo sollevò Tommaso sino a sé e lo indusse a quella mirabile professione di fede. Penso che così, oggi, debba essere la nostra fede, la fede della Chiesa. Una fede che non disprezza il dubbio, ma sa sollevarlo con l’amore. Una fede debole certamente no, ma umile sì.

Vedeva e toccava l’uomo e confessava Dio! Sia così anche per noi in questi giorni tanto duri riguardo a quella «carne di Cristo» che sono i sofferenti, i malati. «Ma come posso trovare le piaghe di Gesù oggi?», chiede il Papa e prosegue: «Io non le posso vedere come le ha viste Tommaso. Le piaghe di Gesù le trovi facendo opere di misericordia, dando al corpo, al corpo e anche all’anima, ma sottolineo al corpo del tuo fratello piagato, perché ha fame, perché ha sete, perché è nudo, perché è umiliato, perché è schiavo, perché è in carcere, perché è in ospedale. Quelle sono le piaghe di Gesù oggi. E Gesù ci chiede di fare un atto di fede a lui tramite queste piaghe» (Omelia in Santa Marta del 3 luglio 2013).

Da san Tommaso d’Aquino prendiamo questa invocazione: «Signore, le tue piaghe io non le vedo come Tommaso, ma ugualmente ti confesso per mio Dio: fa’ che sempre più creda in te. Che in te speri, e più ancora ti ami» (dall’inno Adoro te devote).

19 aprile 2020                                                                     Marcello Semeraro

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