Nov 012019
 

STORIA DELLA LAICITA’ CONSACRATA, DI DON ZENNA

 

Introduzione

Il nuovo Codice di Diritto canonico del 1983 riconosce gli Istituti secolari e li definisce così: “L’Istituto secolare è un istituto di vita consacrata in cui i fedeli, vivendo nel mondo, tendono alla perfezione della carità e si impegnano per la santificazione del mondo, soprattutto operando all’interno di esso” (can. 710). 

Le norme relative agli Istituti secolari sono incluse nel libro II, dedicato al popolo di Dio, nella parte terza dedicata agli Istituti di Vita consacrata e alle Società di Vita Apostolica, nella sezione 1a dedicata agli Istituti di Vita consacrata, nel titolo III “Gli Istituti secolari”. 

Si può ritenere un punto di arrivo chiaro e giuridicamente fondato. Ma il percorso compiuto è stato lungo e controverso. Ed è interessante percorrerlo, non solo per uno sfizio celebrativo, ma perché può rivelare dei risvolti utili a comprendere meglio la forza del carisma e orientarne il futuro.

  1. 1. La natura secolare della vocazione cristiana (1° Lettera di Pietro –  Lettera a Diogneto)

Vale la pena per esempio sottolineare come la natura secolare della vocazione cristiana è presente fin nei primi secoli.

La Prima Lettera di Pietro è, a mio avviso, uno dei testi più significativi per cogliere quale comprensione aveva di sé il cristiano e la comunità cristiana nel primo secolo. Non entriamo in merito alle problematiche legate all’autore, alla composizione e alla probabile data. Noi accogliamo quanto viene espresso nei primi versetti, cioè che l’autore è l’apostolo Pietro con una sua équipe  pastorale e redazionale. Egli stesso ricorda Silvano e Marco, collaboratori nel ministero. Questa lettera ha le caratteristiche di un discorso, di un’omelia. Si definisce lettera – lettera circolare – perché è stata fatta circolare tra le comunità cristiane che si trovavano allora nell’Asia Minore, l’attuale Turchia. Per la nostra ricerca è importante sottolineare come vengono definiti i destinatari: “stranieri, dispersi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell’Asia e nella Bitinia, scelti secondo il piano stabilito da Dio Padre”. Soffermiamoci un po’ su questa definizione.

Vengono definiti scelti, eletti. Pietro vede i cristiani in una fondamentale relazione di gratuità con il Padre, lo Spirito e Gesù Cristo. Essi sono personalmente scelti e chiamati secondo un progetto nascosto del Padre, mediante lo Spirito, per l’obbedienza a Gesù Cristo. Quindi all’origine dell’identità cristiana c’è una chiamata, una elezione divina.

Vengono chiamati stranieri. La divina elezione connota l’esistenza dei cristiani anche sotto il profilo storico: rende infatti forestieri, stranieri. Ma la parola non indica qui semplicemente una condizione sociale. Non si riferisce a quelli che sociologicamente sono stranieri e di passaggio, ma designa i cristiani come tali e il loro speciale modo di essere nel mondo. Pietro praticamente dice che il credente, in quanto eletto, è straniero, anche se geograficamente abita in patria. 

Vengono poi chiamati dispersi, in diaspora potremmo dire. È una parola che ha una forte accentuazione giudaica in quanto evoca la dispersione del popolo eletto tra le nazioni pagane. Cosa dice qui riferita ai cristiani? Che Pietro li vede sparsi tra i non credenti, disseminati nella società pagana. A differenza di Paolo, Pietro vede i cristiani in situazione di diaspora più che di Chiesa riunita. La lettera esorta a vivere da stranieri ma a restare nella società pagana senza costruire un ghetto. 

La rigenerazione cristiana determina un nuovo modo di essere nel mondo: seguendo le orme di Cristo pastore e custode; è lui, infatti, il centro di coesione della “fraternità sparsa nel mondo” … e non tanto una istituzione. Da qui nasce un concetto nuovo di appartenenza.

Da quanto abbiamo detto si intuisce anche qual è il contesto. Si tratta di un contesto di avversità e persecuzione a causa della fede; un contesto che mette alla prova la fedeltà. Per cui l’obiettivo della lettera è di incoraggiare, di dare motivazioni forti a sostegno della fedeltà, di indicare la vera sorgente della speranza, che è Cristo Gesù, morto e risorto, di suggerire un comportamento coerente con la fede che si professa senza scendere a compromessi con la mentalità del mondo in cui i cristiani sono immersi.

Questa concezione dell’identità cristiana verrà ripresa anche in un celebre passo della Lettera a Diogneto (un testo cristiano scritto in greco antico di autore anonimo, risalente probabilmente alla seconda metà del II secolo). Lo richiamo: “I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. (…) Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell’odio. 

A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra (cap. V-VI).

  1. 2. La preistoria degli Istituti Secolari (Ecclesia catholica del 11.08.1889 – Conditae a Christo Ecclesiae del 08.12.1900)

Il fatto che nei secoli I-III le vergini consacrate (e varie specie di asceti) rimanessero nelle loro case, continuando le loro normali occupazioni, ha un significato per quanto riguarda il rapporto tra consacrazione e “essere nel mondo”; per lo meno indica che la continuità fisica con la vita comune di tutti non ostacola la radicale donazione alla causa del Regno.

Fu il monachesimo, esploso nel IV secolo e che ha influito enormemente su tutta la vita della Chiesa, caratterizzato in modo rilevante dalla “fuga dal mondo” e dal “disprezzo del mondo”, che ha favorito l’idea che la consacrazione comportasse anche separazioni dalla storia comune degli uomini e delle donne.

Una esperienza molto interessante per la nostra ricerca è quella degli ordini cavallereschi (secc. XII-XIII), i quali uniscono in una tipologia nuova due figure di cristiano, prima ben separate: quella del monaco e quella del soldato, trasformando la militia saecularis in una militia Christi (crociate).

Si assiste in seguito, da parte di alcuni ordini e congregazioni religiose (francescani, gesuiti, salesiani), ad una “demonastizzazione” delle strutture religiose, con una progressiva più viva sensibilità per i problemi che si pongono fuori dai conventi.

Nei secoli XVII-XVIII, alcuni tentativi di anime apostolicamente intraprendenti di andare oltre i rigidi quadri degli ordini e congregazioni religiose per vivere i consigli evangelici più a contatto con le realtà secolari, sono stati fortemente osteggiati e talvolta repressi da autorità ecclesiastiche.

Già prima, però, intorno al 1530, a Brescia, S. Angela Merici fonda con voti una compagnia di vergini nel secolo, per destinarle, senza vincoli comunitari, al servizio soprattutto della gioventù abbandonata. Una istituzione che può essere ritenuta una anticipazione della consacrazione secolare.

Due secoli più tardi, in Francia, in seguito alla soppressione degli ordini religiosi, Padre Pierre Joseph Picot de Clorivière fonda due società: la Società del Cuore di Gesù per sacerdoti, e quella delle Figlie del Cuore di Maria per donne: entrambe con voti senza vincoli di vita comune.

Ma fu nel 19° secolo che si ebbero i primi tentativi di vere e proprie associazioni di laici consacrati a Dio; e anche i primi interventi ufficiali della Chiesa, precisamente con il Decreto Ecclesia Catholica, emesso dalla Sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari, e confermato il giorno11 agosto 1889 da Leone XIII. In esso si davano norme per l’approvazione d’organismi i cui membri rimanevano nel mondo e non portavano un abito che li distinguesse dagli altri laici. Si stabiliva tuttavia che essi dovessero essere approvati come pie associazioni sotto la giurisdizione del proprio Vescovo.

Nella costituzione Conditae a Christo Ecclesiae (8 dicembre 1900) Leone XIII aveva ammesso le congregazioni di voti semplici fra le congregazioni religione strettamente dette, aggiungendo un breve titolo (Tit XVII Libro II) in cui la Chiesa allo stato canonico di perfezione volle equiparare le società sorte nel suo grembo e spesso anche quelle molto benemerite della società civile.

Anche per le congregazioni religiose maschili fondate in Italia dopo la rivoluzione francese valse il criterio, sino alla Conditae a Christo del 1900, che esse non erano “religiose” in senso stretto, ma solo pie associazioni di sacerdoti. Ciò era già chiaro – oltre i casi di “istituti secolari” come i Sacerdoti secolari dell’istituto Cavanis, fondati a Venezia nel 1802 o dei “missionari apostolici” come gli Stimmatini, fondati nel 1816 a Verona – al momento dell’approvazione dei Rosminiani, nel 1838. Di fatto, alla domanda se si potevano concedere loro i privilegi come “corporazione religiosa”, la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari rispose negando che essi potessero essere considerati “corporazione religiosa”, appoggiandosi sul fatto che essi avevano adottato un loro proprio modo di vivere la povertà, che lasciava il diritto di proprietà ai singoli religiosi, contrariamente a quanto avveniva sino alla rivoluzione francese per i religiosi che emettendo i voti solenni rinunciavano a qualsiasi proprietà. E nella stessa linea si pose Giovanni Bosco, fondando nel 1859 a Torino il suo istituto, al quale volle dare il titolo di “Società”, distaccandolo da qualsiasi connotazione religiosa.

Conformemente alle usanze del tempo, anche in Italia alcuni istituti maschili (ad es., Rosminiani e Salesiani) ebbero un parallelo istituto femminile, posto alle dipendenze del superiore generale dell’istituto, ma a questo tipo di struttura si pose fine con la Conditae a Christo del 1900 e con le successive Normae del 1901, che riconoscevano una totale autonomia agli istituti femminili. Ci furono resistenze, perché gli istituti femminili traevano vantaggi da un legame con l’istituto maschile per la loro formazione e le scuole che dirigevano, e quando don Giacomo Alberione, fondatore nel 1914 della Pia Società di San Paolo e nel 1915 delle Pia Società Figlie di San Paolo, chiese alla Sacra Congregazione dei Religiosi che il superiore generale dell’istituto maschile fosse anche superiore generale dell’istituto femminile si sentì rispondere che ciò non era più possibile dopo le disposizioni del 1900-1901. Così pure, quando negli anni 1949-1953, adducendo motivi apostolici, egli chiese nuovamente che l’istituto delle Figlie di San Paolo fosse diretto dal superiore generale della Società San Paolo, ricevette ancora una risposta negativa, perché la Sacra Congregazione dei Religiosi era ormai ferma sulla autonomia di tutti gli istituti femminili.

  1. 3. La profezia (un anno di grazia: 1919)

È di quest’anno che celebriamo il centenario.

Barbara Pandolfi in un articolo apparso nell’ultimo numero della Rivista della CIIS “Incontro” (5/2019) ne tratteggia brevemente le caratteristiche socio-culturali: “Cento anni fa in Italia esisteva ancora la monarchia; era appena finita la prima guerra mondiale «l’inutile strage» , con il suo immenso numero di vittime e devastazioni. Le donne, rimaste vedove, erano sempre più a capo delle famiglie e inserite nel mondo del lavoro come contadine e operaie, ma anche come impiegate e maestre n mezzo a una popolazione dove un italiano su due era analfabeta e malnutrito. Eppure per loro il diritto di voto era ancora lontano.

In quegli anni la società italiana, che già stava mutando, da una prevalenza di vita rurale accelera il passo verso l’industrializzazione, mentre un gran numero di italiani emigrano verso altri Paesi del mondo. La Chiesa stava maturando un diverso rapporto verso la società dopo le radicali posizioni seguite alla presa di Roma e all’Unità d’Italia. Il Papa rimaneva una figura ieratica, ma i laici stavano organizzando movimenti significativi di impegno e di apostolato. Nel 1919 nasceva il Partito popolare di Don Sturzo. Mentre nello stesso tempo si diffondeva sempre più una mentalità liberale e anticlericale”.

In questo contesto:

Il servita P. Gioacchino Maria Rossetto fa nascere, assieme alla prima responsabile Emanuela Zampieri, La Famiglia delle Figlie di Dio.

Giuseppe Rossetto è accolto nel 1897 tra i Servi di Maria nel convento di Monte Berico a Vicenza, e assume – con la professione religiosa – il nome di fra Gioachino Maria. Ordinato sacerdote il 26 luglio 1903, esercita il suo ministero soprattutto presso il santuario di Monte Berico, facendovi rifiorire la devozione alla Vergine; nel 1913 vive un’esperienza missionaria in Africa. La predicazione, gli scritti e la sua vita sono pervasi dal senso dell’amore del Padre verso l’uomo, e del grande dono ricevuto nell’essere “figli nel Figlio”. Per vivere e testimoniare nella fraternità questi doni, nel 1919 fonda la “famiglia delle figlie di Dio” (oggi Istituto “san Raffaele”) con sede a Vittorio Veneto.

Sempre nell’anno 1919, il gesuita P. Ernesto Busnelli ebbe l’ispirazione di fondare, assieme a M. Giuseppina Pavoni, la Piccola Compagnia delle Apostole del Sacro Cuore. Eretta come Istituto secolare nel 1950, fu riconosciuta di diritto pontificio nel 1955 ed ebbe l’approvazione definitiva nel 1965. Le Apostole del S. Cuore fondono la loro spiritualità sul mistero eucaristico nel quale il “Cuore della Persona del Verbo” manifesta l’abisso della carità di Dio e, condividendo l’anelito di quel Cuore che esorta a pregare il Padre “perché mandi operai nella sua messe”, oltre a consacrarsi a Dio con i voti di castità, povertà, obbedienza, si impegnano in particolare a porsi al servizio dei vari cammini di santità, pregando, orientando e sostenendo le vocazioni soprattutto alla vita sacerdotale, religiosa, missionaria e secolare, convinte che “per le vocazioni è poco dare la vita”, come afferma il fondatore. 

Il 19 novembre 1919 un gruppo di donne, tra cui Armida Barelli, sostenute dal francescano p. Agostino Gemelli, per la prima volta nella storia della Chiesa, dava forma ad una intuizione originale e, per quel tempo, impensabile: seguire la persona di Gesù e i suoi insegnamenti rimanendo immersi nelle realtà di tutti i giorni, insieme a tutti gli uomini e a tutte le donne, condividendo le situazioni più diverse e più complesse, portando nel cuore il grande desiderio di condividere il bene e di fare il bene. Nasceva così l’Istituto Secolare delle Missionarie della Regalità (allora fu chiamato Terziarie consacrate all’Avvento del Regno sociale del Sacro Cuore) e si dava inizio ad una avventura destinata a dare nuovo significato alla presenza dei laici nella Chiesa, stando dentro a tutti gli avvenimenti politici, sociali ed ecclesiali del XXI secolo.

Si sa, però, che il modello di donne “esterne” che volevano vivere come religiose ebbe numerose imitazioni nei primi decenni del secolo XX con la Compagnia di San Paolo, fondata nel 1920 a Milano da don Giovanni Rossi; con le Filiae Reginae Apostolorum (FRA) avviate nel 1921, dopo un decennio di esitazioni, da Elena da Persico; con la Unio Filiarum Dei, fondata nel 1924 da Ippolita Teresa Eranci; con le Oblate di Cristo Re, fondate nel 1924 a Chiavari dal p. Enrico Mauri; con le Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria, fondate nel 1924 a Bitonto da Anna De Renzio; con le Ancelle Mater Misericordiae fondate nel 1926 a Macerata; con la Piccola Famiglia Francescana, fondata a Brescia nel 1929; con le Oblate del Sacro Cuore di Gesù, fondate a Cremona nel 1932; con le Missionarie degli Infermi fondate nel 1936; con le Piccole Apostole della carità, fondate nel 1938; con le Missionarie del sacerdozio regale fondato nel 1945; e con tanti altri istituti ancora sino a raggiungere, nel 2010, il numero di 74 istituti secolari italiani, cioè circa un terzo di tutti gli istituti secolari di diritto pontificio e di diritto diocesano sparsi nel mondo (circa 210 nel 2010) e dipendenti dalla Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica.

  1. 4. Il riconoscimento (documenti fondativi)

     Costituzione Apostolica “Provida Mater Ecclesia” (02.02.1947)

     Motu Proprio “Primo Feliciter” (12.03.1948)

     Istruzione della Congregazione “Cum Sanctissimus” (18.03.1948)

Gli Istituti secolari, tuttavia, giuridicamente si profilano all’orizzonte della storia a partire dalla costituzione apostolica di Pio XII “Provida Mater Ecclesia” (2 febbraio 1947). 

Solo alcuni decenni prima erano impensabili. Il 20 novembre del 1982 appariva sull’Osservatore Romano una pagina tutta dedicata a Armida Barelli, la cosiddetta “sorella maggiore”. Armida Barelli nel 1910 si era iscritta al terz’ordine francescano. Commenta l’articolista: “Una consacrazione totale a Dio nella condizione secolare, da laica, era allora impensabile: un controsenso”. 

Alla Barelli che protestava la volontà sua e delle sue compagne di “rimanere laiche, essere consacrate a Dio per meglio fare l’apostolato nel mondo e avere l’approvazione della Chiesa” il cardinale Pietro Gasparri, compilatore del Codice di diritto canonico, avrebbe detto: “Non ci riuscirete!”. E aggiunse, sia pur sorridendo: “Quod non est in codice, non est in mundo”.

Per cui nel 1910 non c’era altra strada, per un impegno laicale di radicalità evangelica, se non quella della iscrizione al Terz’Ordine che notoriamente non viene ritenuto stato di perfezione.

La ragione di questo fatto, e cioè che gli Istituti secolari decenni prima della “Provida Mater” erano impensabili, è da vedere in molteplici fattori.

Il primo: la figura dello stato di perfezione è solo quello della vita religiosa, e cioè della professione pubblica, canonicamente statuita, dei Consigli evangelici. 

Secondo: la scelta di questa figura normativa dipende da una concezione del rapporto tra l’eschaton e la storia. Lo stato di perfezione è quello che anticipa nel tempo il definitivo. La consacrazione con i Consigli evangelici, canonicamente statuita, è la presenza nella storia del compimento. Dio scelto nella castità, povertà, obbedienza, si configura come la meta, il compimento definitivo della persona umana e chi, nel corso della sua esistenza, fa questa scelta è già, in qualche modo, nell’eschaton, nella forma dell’anticipo. L’eschaton è il senso di tutto e allora chi lo anticipa è nello stato di perfezione. 

Un terzo fattore: il rapporto della Chiesa con il mondo è inteso come separazione; il mondo è pensato prevalentemente come il luogo del peccato, come il luogo della caducità, del finito; la Chiesa è invece il luogo del definitivo, perché ha il Vangelo che è la rivelazione di Dio, perché ha lo Spirito e allora non ci può essere mescolanza tra il mondo e la Chiesa. Questa concezione di separazione era intervenuta in forma singolare a partire dall’epoca moderna; la contrapposizione tra società civile e Chiesa aveva portato ad elaborare una concezione del mondo (e con il termine “mondo” si intende: umanità non evangelizzata, società civile, stato) quale separazione dalla Chiesa. Sicché chi vuole vivere il Vangelo dovrà separarsi dal mondo. La vita cristiana, per eccellenza, sarà una vita fuori dal mondo.

Ancora una volta appare sullo sfondo che il modello di vita cristiana perfetta, è quello del distacco, della separazione dal mondo e cioè la vita religiosa.

Il 2 febbraio 1947, Pio XII con la costituzione apostolica “Provida Mater Ecclesiae”, dà configurazione teologico   giuridica a una esperienza preparata nei decenni precedenti ma che necessita di ulteriore sviluppo. 

La storia ci insegna che i modelli di vita cristiana non sono mai configurati una volta per tutte; man mano che passa il tempo, mutano le circostanze, e si costituiscono modelli sempre nuovi. 

La strutturazione giuridica interviene normalmente in una fase successiva ed ha lo scopo di incanalare, precisare forme già sperimentate, senza impedire il sorgere di forme ulteriori, in tempi diversi, impensabili. 

E’ il “contesto” che provoca il sorgere di queste nuove forme. Avviene grazie all’intuizione di alcune persone. Nel linguaggio abituale si usa a questo riguardo il termine carisma. Le forme di vita cristiana risultano così essere, nello stesso tempo, e frutto di un percorso storico ed ecclesiale, e risposta originale alle esigenze della situazione. Quando la situazione della vita ecclesiale è sembrata in pericolo per impulsi, per spinte negative dall’esterno, lo spirito ha messo in moto la creatività e sono nate nuove forme di radicalità evangelica. La Provvidenza molte volte ci raggiunge quando sembrerebbe averci abbandonato.

Le associazioni considerate dentro la “Provida Mater” sono quelle che, «sia per la loro interna costituzione, sia per la loro ordinazione gerarchica, e per la totale dedizione che esigono dai loro membri propriamente detti, e per la professione dei Consigli evangelici, e nel modo di esercitare il ministero e l’apostolato, maggiormente si avvicinano, quanto alla sostanza, agli stati canonici di perfezione e specialmente alle Società senza voti pubblici, pur senza la vita comune religiosa, ma usando altre forme esterne.» Avete sentito? «…maggiormente si avvicinano, quanto alla sostanza, agli stati canonici di perfezione». Quindi ritorna l’idea secondo la quale queste associazioni, che d’ora in poi si chiameranno Istituti secolari, sono viste, sono lette, secondo questo paradigma: la vita religiosa. Vengono riconosciuti come Istituti secolari quegli istituti che maggiormente si avvicinano allo stato canonico di perfezione che è la vita religiosa. Stante il modello assunto, gli Istituti secolari appaiano di rango inferiore (non si usa questo termine ma lo si coglie dalla lettura di tutta la Provida Mater) in rapporto allo stato canonico di perfezione. 

Questa prospettiva sembra leggermente corretta nel Motu Proprio “Primo Feliciter” del 12 marzo 1948. Passato felicemente il primo anno dalla “Provida Mater”, si cerca di delineare meglio lo statuto teologico degli Istituti secolari. “Primo Feliciter” in effetti sottolinea che il carattere proprio e specifico di questi Istituti è la secolarità, e che il loro apostolato non solo si deve esercitare fedelmente nel mondo, ma per così dire con i mezzi del mondo. Queste espressioni non si trovavano nella “Provida Mater”’. Vuol dire che nell’arco di un anno, statuito giuridicamente quanto permette di identificare gli Istituti secolari, si arriva a porre l’accento non più sulla configurazione di questi in rapporto allo stato canonico di perfezione, ma in rapporto alla loro secolarità, questa è la novità che appare negli interventi magisteriali. Si vede cioè una correzione leggera di prospettiva. Si legge ancora: “Nulla si deve togliere dalla piena professione della perfezione cristiana, saldamente fondata sui consigli evangelici e veramente religiosa nella sostanza, ma la perfezione si deve esercitare e professare nel mondo”. 

Il modello della perfezione resta sempre quello della vita religiosa, ma ora si riconosce che il luogo di esercizio o di attuazione di questa vita di perfezione può e deve essere il mondo. 

Con l’Istruzione “Cum Sanctissimus” (18.03.1948) la Congregazione dei Religiosi dettava le condizioni necessarie perché un sodalizio potesse essere eretto e ricevere il riconoscimento di Istituto Secolare.

Il riconoscimento delle associazioni ora chiamate “Istituti secolari” è reso possibile da un contesto che sinteticamente può essere visto connotato da tre elementi.

Il primo: la convinzione che si debbano abbattere i bastioni tra la Chiesa e il mondo; l’espressione “abbattere i bastioni” sarà il titolo di un libretto di Hans Urs von Balthasar che verrà pubblicato nel 1952; Balthasar respira il clima di una teologia che è stata elaborata in Francia in due centri diversi: dei Gesuiti a Lione e dei Domenicani a Parigi; una teologia che, secondo un famoso articolo del futuro card. Danielou del 1946, deve uscire dalle secche della teologia scolastica, quindi dalla sua assenza al mondo, per essere presente al mondo. 

“Abbattere i bastioni”, cioè la Chiesa deve uscire dal suo isolamento, deve cominciare a guardare al mondo con un occhio diverso. Il mondo è il luogo dell’azione di Dio e quindi è il luogo dell’azione della Chiesa, non ha più senso la contrapposizione. 

Un secondo elemento è l’idea che la missione della Chiesa si attua mediante l’incarnazione. Negli anni ’40 ’50 è vivacissimo in Francia un dibattito tra i cosiddetti incarnazionisti e i cosiddetti escatologisti; secondo i primi la Chiesa deve assumere il modello di Gesù Cristo che si è incarnato nella storia, ha fatto sua la vicenda umana; e l’altra posizione, quella degli escatologisti, secondo i quali col mondo non si può venire a patti, non c’è alcuna alleanza da compiere, perché il mondo non solo è caduco ma è segnato dal peccato. Il dibattito teologico sarà vivacissimo. Gli escatologisti avevano un’arma affilatissima: se il mondo è quello che ha prodotto gli orrori della seconda guerra mondiale, come si può scendere a patto col mondo? Non l’incarnazione, quindi, è la via della santificazione, ma uscire dal mondo permette di santificarsi, per poi entrare in esso e cambiarlo. L’ideale della vita cristiana per gli incarnazionisti è quello dell’immersione nella realtà, per gli altri è la vita monastica: uscire dal mondo, santificarsi e poi tornare nel mondo per trasformarlo. 

Un terzo fattore è l’intuizione che la perfezione cristiana si può attuare anche nel mondo e cioè non c’è un luogo privilegiato nel quale sarebbe possibile vivere il Vangelo radicalmente, fuori dal processo storico, fuori dal mondo. Il mondo è il luogo dove si può vivere il Vangelo radicalmente.

  1. 5. La teologia (l’insegnamento del Vaticano II)

 

Tutto questo prepara il Concilio Vaticano II, il quale per la verità non presta attenzione agli Istituti secolari se non in due passaggi, direi quasi insignificanti nel contesto dottrinale di tutto il Concilio: il n. 11 del decreto “Perfectae Caritatis” e il n. 40 del decreto sull’attività missionaria della Chiesa

Anche il capitolo VI della Lumen Gentium non parla di vita consacrata ma parla ancora di vita religiosa. Questo lascia intendere che nella mente della Lumen Gentium la realizzazione compiuta della chiamata alla santità, descritta nel capitolo V, è nella vita religiosa; il modello resta ancora quello tradizionale; tuttavia, nella sua visione ecclesiologica, il Concilio Vaticano II assume la visione che stava a fondamento del sorgere degli Istituti secolari. 

Potremmo dire che la riflessione sul rapporto tra la Chiesa e il mondo, sull’inserimento dei cristiani nel mondo come luogo di santificazione, era anticipato da quelle esperienze di Associazioni che poi verranno chiamate Istituti secolari. Il Concilio, senza assumere la prospettiva precisa degli Istituti secolari, assume l’humus teologico nel quale gli Istituti secolari maturano.

In effetti gli elementi che ritroviamo nel corpus dottrinale dei Vaticano II a proposito dei rapporto tra Chiesa e mondo, permetteranno a Paolo VI di delineare in forma precisa l’identità degli Istituti secolari. 

Il primo elemento: la Chiesa è per il mondo e nel mondo. La “Gaudium et Spes”, che è il documento del Vaticano II più nuovo (per altro non era in progetto, è sorto nella fase di elaborazione degli altri documenti), delinea un nuovo modo di concepire il rapporto tra Chiesa e mondo. La Chiesa condivide la medesima sorte terrena (GetS 40) dell’umanità; ancor di più, la Chiesa sa che può imparare a sua volta da un dialogo sereno col mondo. Allora Chiesa e mondo non sono più in alternativa ma sono associati nella realizzazione di un progetto che è il progetto di Dio, che è quello della riconciliazione. Chiesa e mondo, pur in tutte le ambiguità che il mondo porta con sé, (devo dire sottovoce “che anche la Chiesa porta con sé”, perché la Chiesa non è estranea al mondo, il mondo anche in senso negativo è dentro la Chiesa) camminano verso la medesima meta che è la realizzazione del piano di Dio. 

Il secondo elemento è la considerazione dei laici (cap. IV della LG) i quali sono anzitutto dei cristiani. Ora, il Concilio Vaticano II affermando che i laici sono dei cristiani, sostiene che c’è una identità comune a tutti nel popolo di Dio e questo è appunto il Battesimo, la relazione vissuta con Dio anche mediante i Sacramenti. Ma i laici sono quei cristiani connotati dall’ “indole secolare” e per “indole secolare” si vuole dire che essi vivendo la vita comune delle persone del mondo si santificano; la santificazione allora non si realizza astraendosi dal mondo ma vivendo la vita quotidiana, e il loro apostolato è esattamente quello di vivere gli aspetti ordinari dell’esistenza per condurli al loro esito finale che è il rapporto con Dio. L’indole secolare è la connotazione di un gruppo di cristiani, ma questo non fa sì che questi cristiani, in quanto tali, siano inferiori agli altri.

Un terzo elemento: la pienezza della vita cristiana consiste nella perfezione della carità alla quale tutti sono chiamati; il famoso cap. V della LG è quello che squarcia l’orizzonte e fa intravedere la possibilità della santità per tutti. La santità o la pienezza di vita cristiana è perfezione della carità. Se c’è una differenza questa riguarda la via non la meta; la meta può essere raggiunta attraverso diverse vie, ma la meta è comune a tutti e la meta è appunto la perfezione della carità che qualcuno raggiunge mediante la via superiore dei Consigli evangelici; ma è la via, superiore, non la meta. 

Questo corpo dottrinale, con questi tre elementi richiamati del Vaticano II, costituisce l’orizzonte dentro il quale si sviluppa la comprensione teologica degli Istituti secolari. 

E questa comprensione teologica giunge a maturazione con Paolo VI, il quale, in alcuni discorsi, riprende quell’orizzonte dottrinale richiamato dal Vaticano II e mostra come trovi concretizzazione negli Istituti secolari. 

Riassumendo i contenuti dei suoi discorsi, si possono individuare tre linee fondamentali

La prima: gli Istituti secolari sono la sintesi della consacrazione e della presenza trasformatrice al mondo. Il 2 febbraio del 1972 in un discorso in occasione dei venticinque anni della “’Provida Mater”, tra le altre cose, Paolo VI dice: “Se ci chiediamo quale sia stata l’anima di ogni Istituto Secolare, che ha ispirato la sua nascita e il suo sviluppo, dobbiamo rispondere: è stata l’ansia profonda di una sintesi, è stato l’anelito all’affermazione simultanea di due caratteristiche; prima: la piena consacrazione della vita secondo i Consigli evangelici, e seconda: la piena responsabilità di una presenza e di una azione trasformatrice dal di dentro del mondo per plasmarlo, perfezionarlo e santificarlo”. Da una parte la professione dei Consigli evangelici è segno della perfetta identificazione con la Chiesa, anzi col suo stesso Signore Maestro e con le finalità che Egli le ha affidate. Dall’altra parte, rimanere nel mondo è segno della responsabilità cristiana dell’uomo salvato da Cristo e perciò impegnato a illuminare e ordinare tutte le realtà temporali affinché sempre si realizzino e prosperino secondo Cristo e siano a lode del Creatore e Redentore (cfr LG 31). 

Secondo: la sottolineatura ora è sulla secolarità. Nel discorso tenuto ai responsabili degli Istituti secolari sempre nel 1972 il 20 settembre, Paolo VI dice: “Secolarità indica la vostra inserzione nel mondo, essa però non significa soltanto una posizione, una funzione, che coincide col vivere nel mondo esercitando un mestiere, una professione secolare, ma deve significare innanzitutto presa di coscienza di essere nel mondo come luogo a voi proprio di responsabilità cristiana”. 

Infine, terzo elemento: gli Istituti secolari sono il laboratorio sperimentale nel quale la Chiesa verifica le modalità concrete dei suoi rapporti con il mondo (discorso dei 25 agosto 1976).

Cosa vuol dire laboratorio sperimentale? La Chiesa, pur avendo chiaro davanti a sé qual è il suo obiettivo da raggiungere nella realizzazione con il mondo ha bisogno di provare; e dov’è che lo prova? Mediante l’esperienza degli Istituti secolari quando questi vivono ciò che sono e cioè quella sintesi tra consacrazione e presenza al mondo. In tal senso per riprendere un’altra espressione dei discorso dei 20 settembre ’72: «Gli Istituti Secolari sono l’ala avanzata della Chiesa nel mondo, esprimete la volontà della Chiesa di essere nel mondo per plasmarlo e santificarlo quasi dall’interno a modo di fermento (LG 31)». 

Paolo VI riprendendo l’insegnamento conciliare dice: «Voi Istituti secolari siete il luogo nel quale si rende visibile in forma singolare quanto il Concilio ha voluto dire sul rapporto tra la Chiesa e il mondo». Negli interventi di Paolo VI si nota uno spostamento di accento; in primo piano non è più la consacrazione sul modello della vita religiosa, in primo piano viene l’inserimento nel mondo. Qui bisognerebbe aprire un capitolo relativo alla passione, nel duplice senso di sofferenza e di dedizione, di Paolo VI per il mondo; è, oserei dire, la sua esperienza vitale e la sua concezione che trovano espressione dentro questi discorsi agli Istituti secolari.

 

Con la costituzione Regimini Ecclesiae universae, datata 15 agosto 1967, papa Paolo VI ha cambiato il nome di otto delle nove Congregazioni. Tra queste la Sacra Congregazione dei Religiosi, che si chiamerà Sacra Congregazione per i religiosi e gli istituti secolari.

  1. 6. L’oggi ecclesiale (A 70 anni dalla “Provida Mater” e di “Primo Feliciter”)

 

 Lettera della Congregazione ai Vescovi della chiesa cattolica sugli Istituti Secolari (4.6.2017)

Nel mistero dell’incarnazione

Sintesi tra secolarità e consacrazione

Consacrazione secolare e secolarità consacrata

Sfide (costante tensione alla profezia, spiritualità di sintesi, tensione di comunione, tensione nella pluralità)

 

     L’identità degli Istituti secolari si è chiarita gradatamente nel tempo, attraverso il Magistero della Chiesa con la Provida Mater Ecclesia, il Primo Feliciter, il Codice di Diritto Canonico, il Magistero pontificio da Paolo VI a papa Francesco. Rimane di grande chiarezza e attualità il documento Gli Istituti Secolari: la loro identità e la loro missione, presentato da questo dicastero alla congregazione Plenaria (3-6 maggio 1983).

Altrettanto importante è quanto gli Istituti secolari hanno compreso di se stessi attraverso la vita delle persone che ne hanno incarnato il carisma. Si tratta di un percorso complesso perché passa attraverso i modi concreti in cui la secolarità consacrata ha saputo interpretare il suo essere presente, e quindi la sua missione, nel mondo e nella chiesa. Un percorso che continua, perché strettamente legato al divenire della Chiesa e del mondo.

Presentiamo questa ricchezza, oggetto della nostra riflessione, perché sia condivisa e diventi con il vostro ministero di Pastori patrimonio di tutta la comunità credente.

  1. Gli Istituti Secolari

(…)

Questa vocazione trova il suo fondamento nel mistero dell’incarnazione, che chiama a rimanere in quella realtà sociale, professionale ed ecclesiale, nella quale le persone si trovano a vivere. Per questo i membri degli Istituti Secolari laicali abitano luoghi informali, seminati nel mondo, così che la buona notizia possa arrivare negli angoli più remoti, in ogni struttura, in ogni realtà. 

(…)

L’origine degli Istituti Secolari, che diventa al tempo stesso ricerca costante e finalità della vita dei loro membri, è la sintesi tra secolarità e consacrazione, due facce della medesima realtà.

(…)

Occorre quindi vigilare affinché, nella formazione e attuazione del carisma, gli Istituti Secolari non trascurino né la dimensione della consacrazione né quella della secolarità; così pure occorre vigilare affinché non si richieda ai membri degli Istituti Secolari una presenza, una missione e una modalità di vita che non esprima la loro secolarità.

 

  1. Consacrazione secolare

La vita consacrata si esprime con la professione dei consigli evangelici. La via dei consigli evangelici, infatti, è indirizzata a realizzare questa forma di vita che orienta a fare del proprio essere e della propria identità battesimale un’offerta per il servizio e l’onore di Dio

(…)

La consacrazione secolare, è perciò una forma di vita consacrata in senso pieno e totale. non è in alcun modo una via di mezzo tra la consacrazione religiosa e la consacrazione battesimale.

 

  1. Secolarità consacrata

È alla luce della rivelazione che il mondo appare come saeculum: non esiste nella vita uno spazio del sacro e uno del profano, un tempo per Dio e un tempo per le vicende grandi e piccole della storia. Il mondo e la storia sono storia di salvezza, per cui i membri degli Istituti vivono da contemplativi nel mondo, accanto a ogni uomo, con simpatia e dentro ogni avvenimento, con la fiducia e la speranza che derivano da una relazione fondante con il Dio della storia.

Per questo il rimanere nel mondo è frutto di una scelta, una risposta a una specifica chiamata.

(…)

Una com-partecipazione responsabile e generosa, che potremmo definire, con un’espressione più semplice, come capacità a vivere dentro:

– dentro il cuore: in quel mondo di affetti, di sentimenti, di emozioni e di reazioni che si accendono nella rete delle relazioni interpersonali e in quella convivenza che forma il tessuto del vivere quotidiano;

– dentro la casa: conoscendo e soffrendo i problemi familiari, come quelli della nascita e della morte, quelli della malattia e della sistemazione, quelli della spesa, del condominio;

– dentro le strutture: nella difficoltà delle contraddizioni, nella tentazione di andare contro coscienza, nella mischia delle rivalità;

– dentro le situazioni: nel continuo impegno del discernimento, nella perplessità delle scelte a volte segnate dalla sofferenza;

– dentro la storia: nell’assunzione di responsabilità nell’ambito sociale, economico, politico, nell’attenzione ai segni dei tempi, nella condivisione del rischio comune, nell’arduo impegno della speranza.

 

[4. Consacrazione secolare del sacerdote]

Due sono i compiti particolari che si possono individuare: servire la fraternità; consentire la santificazione del mondo.

 

  1. Sfide

 

Costante tensione alla profezia

(…)

La profezia sta nella chiamata a non temere nessun luogo e nessuna situazione, anzi a leggere e collaborare al compimento della storia della salvezza proprio a partire da dove la persona è al limite dell’esclusione, soffre l’indifferenza, è svuotata della sua dignità.

La profezia sta nella chiamata a evidenziare il positivo all’interno di qualsiasi situazione, a rivalutare tutte quelle virtù umane che rendono vero ogni tipo di rapporto e solidale l’impegno per un mondo nuovo.

La profezia implica discernimento e creatività suscitati dallo Spirito: discernimento come fatica di capire, di interpretare i segni dei tempi, accettando la complessità determinata dal già e non ancora, la frammentarietà e la precarietà del nostro tempo; creatività come capacità di immaginare nuove soluzioni, di inventare risposte inedite e più adeguate alle nuove situazioni che ci vengono davanti, o anche solo di “iniziare processi”. Farsi compagni dell’umanità in cammino è una realtà teologica.

 

Spiritualità di sintesi

Costante tensione a operare una sintesi fra l’amore di Dio e l’amore del mondo. Radicati nella Parola, cittadini del mondo e contemporanei del proprio tempo, i membri degli Istituti secolari sono chiamati ad operare, in continuo discernimento, una sintesi, sempre provvisoria e sempre da rinnovare, tra la Parola di Dio e la storia, tra le esigenze del regno che è già e che non è ancora.

(…)

 

Tensione di comunione

Costante tensione al dialogo e alla comunione: è la spiritualità dell’incarnazione coniugata con il mistero della Trinità che spinge-urge i membri degli Istituti secolari a essere esperti di dialogo e per questo artefici di comunione con ogni realtà umana ed ecclesiale.

(…)

Uomini e donne di comunione, che hanno affinato la capacità di ascolto dell’altro e del diverso, che non fuggono dinanzi alle tensione o alle divergenze, sempre disposti ad avviare processi di pace, capaci di “cercare insieme la strada, il metodo, lasciandosi illuminare dalla relazione di amore che passa fra le tre divine Persone quale modello di ogni rapporto interpersonale”.

 

Tensione nella pluralità

Costante tensione all’unità nelle differenze. Immersi nella storia di questo tempo, di cui la mescolanza di popoli e culture costituisce una delle sfide e delle opportunità più evidenti, gli Istituti Secolari fanno i conti con la fatica e la bellezza di armonizzare unità e differenze. 

 

  1. 7. L’attualità (a 100 anni dall’anno di grazia 1919-2019) alla luce del magistero di Papa Francesco

          

Il cammino compiuto dagli Istituti Secolari, dalla “Provida Mater Ecclesia” a oggi, sia a livello di riflessione teologica e magisteriale che a livello di esperienza di vita, ci permette di affrontare la questione della sua attualità tenendo sullo sfondo alcuni dati acquisiti: la piena consacrazione, la sua dimensione secolare, lo spirito missionario inteso prevalentemente come lettura dei segni dei tempi e animazione cristiana della realtà terrena, lo stile del dialogo.

 

Oggi però si stagliano in primo piano alcune nuove suggestioni, sottolineate o addirittura introdotte dal magistero di Papa Francesco, che conferiscono agli II.SS. e al loro carisma una rinnovata connotazione profetica.

Basti citare alcune definizioni che Egli ha dato degli Istituti secolari all’udienza del 10 maggio 2014: 

“Voi fate parte di quella chiesa povera e in uscita che io sogno” 

“Siete segno di quella chiesa dialogante di cui parla Paolo VI nell’enciclica Ecclesiam Suam al n. 90”

“Siete nel cuore del mondo con il cuore di Dio”

“Il vostro permanere nel mondo non è semplicemente una condizione sociologica, ma è una realtà teologale”

“La vostra è una vocazione per sua natura in uscita… soprattutto perché vi chiede di abitare là dove abita ogni uomo”.

 

A partire da una lettura attenta del discorso che il Papa ha tenuto il 10 maggio 2014, in occasione di un convegno della CIIS, e dell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium dell’anno precedente,  mi sembra si possano individuare cinque suggestioni più propositive:

 

  1. Custodire la contemplazione (verso il Signore e nei confronti del mondo).

Ha a che fare con la consacrazione. 

 

L’espressione è stata usata dal Papa nella conversazione libera avuta all’udienza con i partecipanti all’incontro promosso dalla CIIS il 10 maggio 2014. Precisamente egli ha affermato: “E da quel tempo (il tempo della Provida Mater) fino ad ora è tanto grande il bene che voi fate nella Chiesa, con coraggio perché c’è bisogno di coraggio per vivere nel mondo. (…). Tutti i giorni, fare la vita di una persona che vive nel mondo, e nello stesso tempo custodire la contemplazione, questa dimensione contemplativa verso il Signore e anche nei confronti del mondo, contemplare la realtà, come contemplare le bellezze del mondo, e anche i grossi peccati della società, le deviazioni, tutte queste cose, e sempre in tensione spirituale…”.

Nella Evangelii Gaudium (EG) al n. 264 aveva scritto: “È urgente recuperare uno spirito contemplativo, che ci permetta di riscoprire ogni giorno che siamo depositari di un bene che umanizza, che aiuta a condurre una vita nuova. Non c’è niente di meglio da trasmettere agli altri”.

 

Vengono spontanee alcune considerazioni: 

– Innanzitutto va focalizzato l’oggetto primario della nostra consacrazione, che è il Signore Gesù. È al suo amore che noi aderiamo, alla sua chiamata che diciamo il nostro ‘sì’; è del suo progetto che noi ci mettiamo a servizio, donando con radicalità tutto di noi (affetti, beni e volontà). La stessa professione dei voti, quindi, va nel senso di quell’incontro personale con Gesù che ci mette in movimento dietro di lui dentro la storia. Del resto ciò che noi cerchiamo è la “perfezione della carità”: “Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi” (1Gv 4,12).

– Va poi specificato che, intesa in questo senso, la consacrazione non porta fuori, non distrae, non separa dalla realtà mondana, positiva o negativa che essa sia, ma offre piuttosto una prospettiva pasquale, di redenzione e di speranza. Addirittura la relazione personale con Cristo passa attraverso le vicende umane e si sostanzia di tutto ciò che noi portiamo della nostra esistenza concreta. Potremmo richiamare quanto afferma la Gaudium et Spes al n. 1: “Nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel cuore” dei discepoli di Cristo; dove per “eco” si intende non solo “risposta” ma anche ripresa, valorizzazione, coinvolgimento, “empatia” ha spiegato Papa Francesco a Seul.

– Se Papa Francesco avesse conosciuto quello scritto con cui Don Tonino Bello aveva insegnato ai catechisti ad essere “contempl-attivi”, egli l’avrebbe fatto senz’altro suo: leggere insieme il passaggio del Signore, attraverso la contemplazione del Vangelo, “sostando sulle sue pagine e leggendolo col cuore” (EG 264); cogliere i suoi appelli alla solidarietà umana, alla giustizia e alla pace, presenti anche nel “grido” dei poveri e di interi popoli (cfr EG 187-190); lavorare alacremente per la costruzione del suo Regno, perché “nella misura in cui Egli riuscirà a regnare tra di noi, la vita sociale sarà uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti” (EG n. 180).

– Avere uno spirito contemplativo significa allora dedicarsi consapevolmente a tutto ciò che è bene, che rende migliore l’uomo e la società, che qualifica la storia come ‘storia di salvezza’. Custodire la contemplazione è proprio di chi, a diretto contatto con il mondo, ne conosce le dinamiche e vi incarna la fede attraverso il suo vissuto.

– La profezia sta nella chiamata a tenere sempre uniti fede e vita, dimensione spirituale e vissuto concreto, celebrazione dei sacramenti e impegno storico… o, ancora meglio, il proprio essere nel mondo e il proprio essere di Dio senza che questo costituisca dicotomia ma generi continuità e si configuri come prodromo del Regno. 

 

  1. Camminare per le strade del mondo e abitare le periferie (in uscita, andare oltre e in mezzo, lì dove si gioca tutto: la politica, l’economia, l’educazione, la famiglia…).

Ha a che fare con la secolarità. 

 

Anche questa espressione è stata usata dal Papa all’udienza succitata, in questo preciso contesto: “Non perdete mai lo slancio di camminare per le strade del mondo, la consapevolezza che camminare, andare anche con passo incerto e zoppicando, è sempre meglio che stare fermi, chiusi nelle proprie domande o nelle proprie sicurezze. La passione missionaria, la gioia dell’incontro con Cristo che vi spinge a condividere con gli altri la bellezza della fede, allontana il rischio di restare bloccati nell’individualismo”.

Nella EG al n. 20 aveva scritto: “Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del vangelo”. E al n. 46: “La Chiesa ‘in uscita’ è una Chiesa con le porte aperte. Uscire verso gli altri per giungere alle periferie umane non vuol dire correre verso il mondo senza una direzione e senza senso. Molte volte è meglio rallentare il passo, mettere da parte l’ansietà per guardare negli occhi e ascoltare, o rinunciare alle urgenze per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada. A volte è come il padre del figlio prodigo, che rimane con le porte aperte perché quando ritornerà possa entrare senza difficoltà”.

 

Anche qui alcune considerazioni:

– La Chiesa vive nel mondo e in dialogo con esso. Il Signore Gesù ha voluto la Chiesa come sacramento della sua presenza di risorto nella storia. Ora Cristo continua “a prendere l’iniziativa”, a “precedere nell’amore” – come spiega il n. 24 della EG – e quindi la Chiesa è chiamata a “coinvolgersi” (“La comunità evangelizzatrice mediante opere e gesti si mette nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana…”), ad “accompagnare” (“Conosce le lunghe attese e la sopportazione apostolica. Usa molta pazienza ed evita di non tenere conto dei limiti…”), a “fruttificare” (“Trova il modo per far sì che la Parola si incarni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova, benché apparentemente siano imperfetti e incompiuti…”) e a “festeggiare” (Celebra e festeggia ogni piccola vittoria, ogni passo avanti. (…) si fa bellezza nella Liturgia in mezzo all’esigenza quotidiana di far progredire il bene…). 

Sono quattro verbi della secolarità, cioè di una presenza operosa ed incisiva in ogni angolo di umanità dove risuonano più forti gli interrogativi degli uomini e dei popoli. 

– La Chiesa abita le periferie attraverso di noi che, per vocazione, siamo chiamati a restare “in saeculo” e ad agire “con i mezzi che sono propri del mondo” senza alcuna distinzione che non sia la testimonianza di fedeltà al vangelo che connota le nostre scelte e il conseguente stile di vita.

– Secolarità è anche andare, non restare bloccati sulle proprie posizioni e le proprie sicurezze. Richiede la capacità di porsi delle domande e non solo di dare delle risposte, rischiando nella ricerca, ascoltando la realtà della vita prima di stigmatizzarla con delle norme. 

– La profezia sta nella chiamata a non temere nessun luogo e nessuna situazione, anzi a leggere e a collaborare nel compimento della storia della salvezza proprio a partire da lì, dove la persona è al limite dell’esclusione, soffre l’indifferenza, è svuotata della sua dignità.

 

  1. Toccare con mano sullo stile del samaritano, presentando il volto della misericordia (ospedale da campo) e della tenerezza.

Ha a che fare con la missionarietà.

 

Sempre nel discorso consegnato all’udienza succitata Papa Francesco afferma: “In forza dell’amore di Dio che avete incontrato e conosciuto, siete capaci di vicinanza e tenerezza. Così potete essere tanto vicini da toccare l’altro, le sue ferite e le sue attese, le sue domande e i suoi bisogni, con quella tenerezza che è espressione di  una cura che cancella ogni distanza. Come il Samaritano che passò accanto e vide e ebbe compassione. È qui il movimento a cui vi impegna la vostra vocazione: passare accanto ad ogni uomo e farvi prossimo di ogni persona che incontrate; perché il vostro permanere nel mondo non è semplicemente una condizione sociologica, ma è una realtà teologale che vi chiama ad uno stare consapevole, attento, che sa scorgere, vedere e toccare la carne del fratello”.

In EG al n. 49 scriveva: “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: «Voi stessi date loro da mangiare»”.

E ancora al n. 88: “L’ideale cristiano inviterà sempre a superare il sospetto, la sfiducia permanente, la paura di essere invasi, gli atteggiamenti difensivi che il mondo attuale ci impone. Molti tentano di fuggire dagli altri verso un comodo privato, o verso il circolo ristretto dei più intimi, e rinunciano al realismo della dimensione sociale del Vangelo. Perché, così come alcuni vorrebbero un Cristo puramente spirituale, senza carne e senza croce, si pretendono anche relazioni interpersonali solo mediate da apparecchi sofisticati, da schermi e sistemi che si possano accendere e spegnere a comando. Nel frattempo, il Vangelo ci invita sempre a correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro, con la sua presenza fisica che interpella, col suo dolore e le sue richieste, con la sua gioia contagiosa in un costante corpo a corpo. L’autentica fede nel Figlio di Dio fatto carne è inseparabile dal dono di sé, dall’appartenenza alla comunità, dal servizio, dalla riconciliazione con la carne degli altri. Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza”.

 

Considerazioni:

– La Chiesa è chiamata ad un annuncio che non risuona dall’alto dei pulpiti (all’Omelia Papa Francesco ha dedicato pagine intensissime nella sua esortazione apostolica perché il predicatore giunga ad una “personalizzazione della Parola” da “far ardere i cuori” cfr EG 142), non risuona nelle dotte conferenze, nelle scuole teologiche, ma nelle relazioni interpersonali dove ciò che è vero e buono passa attraverso la comunicazione del vissuto.

– Anche la preoccupazione per le vicende prettamente sociali rientra nello spirito missionario della Chiesa di Papa Bergoglio, perché il vangelo è per tutti e, se qualcuno può essere privilegiato da questo movimento ‘in uscita’, questi deve essere il povero, colui che è stato ferito nella battaglia della vita e cerca qualcuno che gli sia prossimo.

– La missionarietà è insita nella consacrazione secolare: la consacrazione, dicevamo, consiste nel dedicarsi al progetto di Dio sulla storia e la secolarità consiste nell’abitarla, condividendone “gioie e speranze, tristezze e angosce”. Da questa posizione, che per noi costituisce un vero e proprio stato di vita, si impone la testimonianza del vangelo: “Non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli»” (Mt 5,13-16).

– La profezia sta nella chiamata a soccorrere senza giudicare, a evidenziare il positivo all’interno di qualsiasi situazione, a “non aver paura della tenerezza”, a rivalutare tutte quelle virtù umane che rendono vero ogni tipo di rapporto e solidale l’impegno per un mondo nuovo.

 

  1. Rivalutare il senso di appartenenza alla propria comunità vocazionale dove si sperimenta l’essere Chiesa povera per i poveri, si diventa antenne, si dona una testimonianza che attrae.

Ha a che fare con la fraternità.

 

Il discorso consegnato dal Papa all’udienza del 10 maggio 2014 conteneva anche questa affermazione: “È urgente rivalutare il senso di appartenenza alla vostra comunità vocazionale che, proprio perché non si fonda su una vita comune, trova i suoi punti di forza nel carisma. Per questo, se ognuno di voi è per gli altri una possibilità preziosa di incontro con Dio, si tratta di riscoprire la responsabilità di essere profezia come comunità, di ricercare insieme, con umiltà e con pazienza, una parola di senso che può essere un dono per il Paese e per la Chiesa, e di testimoniarla con semplicità. Voi siete come antenne pronte a cogliere i germi di novità suscitati dallo Spirito Santo, e potete aiutare la comunità ecclesiale ad assumere questo sguardo di bene e trovare strade nuove e coraggiose per raggiungere tutti”.

EG ai nn. 91-92 approfondisce: “È necessario aiutare a riconoscere che l’unica via consiste nell’imparare a incontrarsi con gli altri con l’atteggiamento giusto, apprezzandoli e accettandoli come compagni di strada, senza resistenze interiori. Meglio ancora, si tratta di imparare a scoprire Gesù nel volto degli altri, nella loro voce, nelle loro richieste. È anche imparare a soffrire in un abbraccio con Gesù crocifisso quando subiamo aggressioni ingiuste o ingratitudini, senza stancarci mai di scegliere la fraternità.

Lì sta la vera guarigione, dal momento che il modo di relazionarci con gli altri che realmente ci risana invece di farci ammalare, è una fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano, che sa sopportare le molestie del vivere insieme aggrappandosi all’amore di Dio, che sa aprire il cuore all’amore divino per cercare la felicità degli altri come la cerca il loro Padre buono. Proprio in questa epoca, e anche là dove sono un «piccolo gregge» (Lc 12,32), i discepoli del Signore sono chiamati a vivere come comunità che sia sale della terra e luce del mondo (cfr Mt 5,13-16). Sono chiamati a dare testimonianza di una appartenenza evangelizzatrice in maniera sempre nuova. Non lasciamoci rubare la comunità!”.

 

Considerazioni:

– Il tema delle relazioni è stato sviluppato più volte all’interno dei nostri Istituti. Esse costituiscono infatti il tessuto su cui ricamare la ricchezza del nostro carisma. Senza relazioni tutto si sfalda e rischia di risultare addirittura una contro testimonianza.

E non parliamo solo delle relazioni istituzionali, ma anche di quelle esistenziali nei diversi ambiti di vita e di lavoro, nelle diverse situazioni psicologiche e sociali, in famiglia e nella comunità cristiana, relazioni di cui l’esperienza del gruppo diventa punta di diamante, autentico “laboratorio”.

– Le ricadute più significative sono quelle del perdono, della collaborazione, del discernimento comunitario, della fraternità.

– La fraternità porta a stare sullo stesso piano, non ammette superiorità e sudditanza, richiama il concetto di creaturalità, porta ad accogliere povertà e fragilità proprie e altrui, motiva lo scambio non solo in termini di intesa psicologica ma soprattutto di condivisione della fede e dell’impegno apostolico.

– La comunità vive delle esperienze di ciascuno dei suoi membri, gioisce e soffre con loro, e attraverso queste esperienze viene a contatto con il mondo e con la storia imparando a cogliere i segni della presenza del Risorto e irradiando il gusto dell’appartenenza. 

– La profezia sta nella chiamata a vivere le relazioni interpersonali, soprattutto all’interno dei nostri gruppi, non come una circostanza ma come il luogo dell’ascolto, del dono di sé, della ricerca e della testimonianza della propria identità.

 

  1. Trasmettere la gioia dell’incontro con Cristo e della vicinanza ai fratelli.

Ha a che fare con la spiritualità.

 

Sempre nel discorso del 10 maggio leggiamo: “Insieme ed inviati, anche quando siete soli, perché la consacrazione fa di voi una scintilla viva di Chiesa. Sempre in cammino con quella virtù che è una virtù pellegrina: la gioia!”.

Del tema della gioia è intrisa tutta l’EG. Si apre così: “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia. In questa Esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni” (n. 1). E più avanti descrive l’identità dell’evangelizzatore: “Quando la Chiesa chiama all’impegno evangelizzatore, non fa altro che indicare ai cristiani il vero dinamismo della realizzazione personale: «Qui scopriamo un’altra legge profonda della realtà: la vita cresce e matura nella misura in cui la doniamo per la vita degli altri. La missione, alla fin fine, è questo». Di conseguenza, un evangelizzatore non dovrebbe avere costantemente una faccia da funerale. Recuperiamo e accresciamo il fervore, «la dolce e confortante gioia di evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime […] Possa il mondo del nostro tempo – che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza – ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo»” (n.10). “Per essere evangelizzatori autentici occorre anche sviluppare il gusto spirituale di rimanere vicini alla vita della gente, fino al punto di scoprire che ciò diventa fonte di una gioia superiore” (n. 268).

 

Considerazioni:

– Non è un generico invito alla gioia, ma la sottolineatura che la gioia è nello stesso tempo contenuto e forma dell’annuncio. La consacrazione secolare mette in comunione piena con la sorgente della gioia, che è Cristo Gesù e il suo Vangelo, e nello stesso tempo domanda una testimonianza che passa più attraverso la vita che la parola. Se i nostri occhi non sprizzano gioia vuol dire che non abbiamo incontrato veramente il Signore e la nostra fede appare stanca, faticosa, senza attrazione.

–  Nelle relazioni secolari, le più diverse, il primo impatto è dato proprio dalla capacità di irradiare serenità, fiducia, entusiasmo. La comunicazione della fede ha come obiettivo la pienezza della vita, del suo senso, della sua realizzazione, della sua felicità.

– La gioia del cristiano non è frutto della fuga dalle problematiche del quotidiano, ma certezza, anche nella prova, dell’amore del Signore che ci raggiunge, ci coinvolge e ci salva.

– La profezia sta nella chiamata a rendere ragione della speranza che abita in noi attraverso la testimonianza della gioia, cercata nell’incontro con il Signore e maturata a contatto con la vita quando la si sa leggere nell’ottica della fede.  

 

Sono tutte immagini utilizzate da Papa Francesco per indicare con quale volto la Chiesa è chiamata a stare oggi nel mondo e di fronte al mondo. La loro attualizzazione vede gli II.SS. e i loro membri in prima fila, come in trincea, perché questo stile di vita è nel loro DNA.

La consacrazione secolare è stata capace di richiamare costantemente la Chiesa a questa sua missione e di far crescere una riflessione e offrire una testimonianza che ha portato al magistero di Papa Francesco.

 

Finale

In sintesi, gli Istituti secolari sono attesi oggi dalla storia a realizzare il monito di Pietro: (1PT 3,14-17): “E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi

domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con

una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati

quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. È meglio infatti, se cosi vuole Dio,

soffrire operando il bene che facendo il male”.

 

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