Lug 092016
 

donmarioalbertiniLa parabola del samaritano buono, narrataci dal vangelo, vuole insegnarci questo: il senso e il valore della nostra vita non stanno nelle conquiste scientifiche, tecnologiche o economiche, non stanno neppure nel formale rispetto di norme esteriori, ma in un agire che ci avvicina a Dio. Lo stile cristiano di vivere ha come modello di riferimento l’agire come Gesù, che è per noi «immagine del Dio invisibile». Ci anticipa questo vangelo anche la prima lettura, la quale ci parla di Dio che in nome dell’alleanza, da lui stesso voluta con gli uomini, è sempre disposto a perdonare le loro colpe. In questa prospettiva perciò anche l’obbedire ai suoi comandamenti è espressione di una fiducia nella sua vicinanza. Una prossimità spinta fino a farsi carne in Gesù Cristo, come ricorda la seconda lettura: perché «piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose».

Vangelo dalle molte domande, poste da qualcuno a Gesù o riproposte da Gesù. Ne esaminiamo due.  La prima è una domanda che dovremmo porre anche noi: cosa devo fare per avere la vita eterna? e ad essa Gesù con la parabola del buon samaritano dice: per avere la vita eterna devi preoccuparti della vita terrena del tuo prossimo. Facciamo attenzione a questo legame tra vita eterna, cioè quella che ci unisce a Dio, con la vita terrena degli altri. Per poter ereditare la vita di Dio, l’uomo deve impegnarsi a favore della vita degli altri, prendersi cura della vita del prossimo. E’ il comandamento: ama il prossimo come te stesso.

Che va insieme con il comandamento: ama Dio con tutto il tuo essere. Perché dire di sì a Dio significa anche essere pronti a dire un sì effettivo al prossimo, in particolare a chi vive nel disagio.

Teniamo presente, ripeto, questo legame: “cosa devo fare per avere la vita eterna?” – “va’ e fa’ altrettanto” = aiuta il tuo prossimo.

La seconda domanda da esaminare è: “chi è il mio prossimo?”. E’ una domanda sbagliata, perché chiedere ‘chi è il mio prossimo’ significa immaginare un mondo di cui io sto al centro, e pensare gli altri posti attorno a me, chi più vicino e chi più lontano. Gesù con il suo racconto insegna che non si tratta di catalogare le persone collocandole più vicino o più lontano, ma di accorgersi delle persone che hanno bisogno di me. Infatti conclude la parabola chiedendo: “chi è stato ‘prossimo’” a quel malcapitato? Rettifica così la domanda che dicevo sbagliata: non “chi è il mio prossimo?” – ma: come farmi prossimo a chi è nella necessità? Non quindi soltanto a chi mi è parente o amico o compagno. Di quel ferito, Gesù non dice il nome, non dice se era ebreo o pagano, se era ricco o povero, ma semplicemente che era un uomo: “Un uomo scendeva …”. Ecco: un uomo, una persona. Questo è il mio prossimo.

E qui sarebbe interessante un’analisi anche dei particolari della parabola. Per esempio i vari gesti che compie il Samaritano nei confronti dell’uomo incappato nei ladroni e malmenato. Di lui è detto in primo luogo che vide il ferito; anche il sacerdote e il levita lo avevano visto, ma avevano tirato diritto. Lui invece “lo vide, – ne provò compassione” e allora gli si fa vicino (ecco: gli diventa ‘prossimo’!) e gli presta i primi soccorsi eccetera. Cioè passa all’azione caritativa. E’ quello che sottolineavo all’inizio: dice di sì alla vita dell’altro – per questo sarà degno della vita eterna.

Aggiungo un ultimo pensiero: questa parabola è stata definita la sintesi del vangelo, per due motivi. Il primo è perché essa è simbolo dell’azione di Gesù nei nostri confronti: lui si è fatto prossimo a noi per salvarci dal male, è lui il buon Samaritano che ha pietà delle nostre povertà spirituali e si prende cura di noi per esempio mediante i sacramenti. Il secondo motivo è perché la parabola riassume l’insegnamento di Gesù circa l’amore al prossimo.

Proviamo allora a ripensarla sia mettendoci nella parte di chi ha bisogno di aiuto da parte di Dio, sia sentendo il comando di porgere noi aiuto a chi ne ha bisogno.

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