Gen 082022
 

Se il Natale è la festa dei doni e dei doni per i bambini in modo speciale, lo dobbiamo anche ai Magi. Entrati nella casa di Maria «videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra» (Matteo 2,11).

Quasi mai resistiamo fino all’Epifania per inserire i re Magi nel presepe. Entrano già nel primo allestimento, sebbene all’inizio siano laggiù in fondo, in lontananza, ma sempre dentro l’orizzonte. Perché i Magi ci piacciono molto per molte cose. Compaiono nella Buona Novella cristiana per visitare un bambino ed escono con discrezione dai Vangeli.

Ci hanno insegnato l’accoglienza – non si va mai a trovare una mamma che ha partorito senza un dono. E ci ricordano che la missione universale di Gesù non si traduce in un potere religioso universale, ma in un messaggio di gioia, di speranza, di pace, di dialogo e fraternità, dono per tutti i popoli e per tutte le religioni. Dei re Magi non si dice infatti nei Vangeli  che divennero cristiani; ma guai a toglierli dal presepe, ci devono stare come  Maria e Giuseppe – coloro che credono che il presepe sia una festa troppo confessionale dimenticano i Magi. Uomini venuti da lontano che ci hanno insegnato l’arte del fare i doni. Se il Natale è la festa dei doni e dei doni per i bambini in modo speciale, lo dobbiamo anche ai Magi. Entrati nella casa di Maria «videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra» (Matteo 2,11).

Prima si prostrano e adorano, poi consegnano i loro doni. Questo ritmo dei gesti è essenziale: i Magi iniziano la loro visita adorando, prostrati (procidentes, cioè “gettati a terra”), e solo dopo fanno i loro tre doni. Certo, i Magi adorarono un bambino speciale, adorarono Gesù. Ma loro non sapevano che quel bambino fosse il Figlio di Dio; speravano che fosse un nuovo re, sapevano che era un figlio dell’uomo. E allora in quel loro gesto ci svelano alcune dimensioni antropologiche del dono che valgono anche per i nostri doni, almeno per quelli diversi e decisivi. Una certa adorazione è il primo movimento del dono. Adorare, dal latino ad-orare, cioè portare alla bocca (os, oris). In Oriente era infatti comune che quando un viaggiatore arrivava in visita da una persona, come prima cosa si portava la mano verso la propria bocca, la baciava e poi con essa lanciava baci verso la persona “adorata”. Qualche volta si baciavano i piedi, un ginocchio, la mano. Ma la mano alla bocca, soprattutto nel Vicino Oriente, era anche segno di stupore, un linguaggio per dire la meraviglia di un incontro che toglieva il fiato e faceva restare muti di fronte al valore e alla bellezza della persona che si aveva di fronte. L’adorare è quindi gesto della bocca, ha a che fare con i nostri baci e con il nostro silenzio – la parola greca che usa Matteo per dire “adorare”, proskynesis, letteralmente significa “baciare verso”.  E noi lo sappiamo, perché lo abbiamo imparato (e troppo presto dimenticato) dalla nostre nonne, che riempivano di baci le statue di Gesù, di Maria e dei santi, soprattutto Gesù bambino.

E poi riempivano di baci purissimi anche noi e i bambini di tutti, perché ricevere infiniti baci purissimi è parte dei diritti della prima infanzia – sono certo che esista un rapporto, anche se non so misurarlo, tra questi baci ricevuti da piccoli e l’amore che siamo riusciti a donare da grandi. 

Solo dopo essersi prostrati, dopo aver adorato, dopo aver lanciato molti baci al bambino e rimasti in silenzio con la mano sulla bocca, i Magi offrirono i loro doni. Quell’oro, incenso e mirra continuano a essere vivi e a parlarci perché furono preceduti da quella stupenda adorazione, della quale furono culmine e compimento. Tutti sappiamo riconoscere questi “doni adorazione” – nel farli, nel riceverli, nel vederli fare agli altri (il dono gode di una certa transitività: ti vedo fare un dono vero a qualcuno che magari neanche conosco e ti ringrazio). Li riconosciamo quando, dopo una crisi, un tradimento, nell’ultimo giorno di lavoro, arriviamo da una persona cara con un dono, ma l’oggetto che gli stiamo portando è solo l’ultimo atto. Prima, come i Magi, anche noi ci mettiamo in cammino, andiamo nella sua “casa”, per onorarlo. Poi, di fronte a lui, a lei, ci fermiamo. Taciamo dentro. Con l’anima ci gettiamo a terra e da lì gli/le mandiamo mille baci, per dire: “Tu per me sei importante, sono venuto qui per dirtelo, tu vali infinitamente di più dell’oggetto che ti sto portando”. E poi restiamo in silenzio, per qualche secondo, a volte qualche minuto. Magari abbracciati, piangendo insieme, muti: la parola è immensa, ma certe “parole” parlano solo col silenzio. Poi, alla fine, apriamo lo scrigno e sveliamo il dono. E qualche volta alla fine, scoprendo il dono, è l’altro che si mette la mano alla bocca, meravigliato da questa bellezza diversa. Perché i gesti che l’hanno preceduto e preparato hanno spiegato la semantica del dono, avevano detto il valore di quell’oggetto che abbiamo donato e che resterà dopo che noi ce ne saremo andati. A rendere bellissimi i doni è la loro liturgia relazionale. Senza di essa la cosa donata è povera, e ogni volta che la guarderemo avrà molto poco da raccontarci e alla fine finirà reclusa al buio di un cassetto. Non sono tanti questi doni-adorazione nella nostra vita, ma non lasceremo la terra senza averne fatti e ricevuti alcuni – almeno uno.

La nostra civiltà ha moltiplicato i regali credendo che la loro moltiplicazione potesse compensare la carestia di doni, l’indigenza di baci lanciati e ricevuti, di silenzio meravigliato e di stupore. I doni dei Magi a Gesù non erano utili. Una madre con un bambino in fasce avrebbe avuto bisogno di altro. A dirci che i doni non hanno come primo scopo soddisfare i bisogni nostri, dei nostri amici e dei nostri figli (per questo è triste, anche se molto comune, chiedere: “Cosa ti serve per Natale?”). Il dono è altro. Meglio un dono sprecato (perché non piace) di un “dono” utile – il dono può essere anche utile, ma non deve essere utile, perché il suo valore non sta nella sua utilità ma nella relazione di cui è segno, nell’impegno che ho messo per cercarlo per sorprenderti sapendo di poter fallire (è anche questa la tipica fragilità dei doni, e la loro grandezza). Questi doni non si ordinano, possono solo farci portare la mano alla bocca. Meraviglia è l’altro nome del dono.

Da Avvenire del 6 gennaio 2022, di L. Bruni

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