Giu 062020
 

fotosearch_k1860240Caro direttore, ogni giorno mi corico e mi risveglio con questa domanda: avrò fatto la mia parte fino in fondo? Rispetto ai colleghi in trincea negli ospedali, stravolti dal lavoro incessante ed esposti a un rischio elevato, io medico che lavoro sul territorio sto presidiando con efficacia la situazione? A ben vedere la domanda sulla propria identità, in scienza e coscienza, è già dentro la professione medica, ma oggi viene acuita e provocata dalla pandemia che stiamo vivendo. Circa 1.700 assistiti col Servizio sanitario, oltre a una quota variabile di privati, conoscenti e amici seguiti attraverso l’attività specialistica e di ricovero in una clinica privata. Quasi 2mila persone che mi stanno a cuore, che mi chiedono incessantemente lumi, consigli, rassicurazioni cliniche e al contempo umane. Due cellulari attivi h24, email, visite domiciliari, video-consulti: benedette le innovazioni tecnologiche, ben venga la telemedicina… Il 98% della patologia dominante è simil-influenzale: una miriade di casi, protratti o nuovi, che maledettamente non guariscono, i sintomi delle complicanze in agguato e difficili da valutare con obiettività, la presunzione che quasi tutti siano positivi al virus, anche se il tampone non si può fare. Rari casi gravi in ospedale per ora (a mia conoscenza), ma bastano per stare in angoscia.

Le altre patologie ordinarie non sembrano preoccupare più, così come sono scomparse le troppe richieste-pretese di risolvere sintomi indefiniti o ‘ipocondriaci’. Il ritornello è per tutti l’isolamento preventivo, specie in ambito familiare (ma è dura nelle nostre piccole case, a volte semplici bilocali), pochi farmaci sintomatici e la registrazione dei cambiamenti clinici da comunicare prontamente. Tante rassicurazioni e consigli. 

Basta per tranquillizzare la mia coscienza di fronte alla scienza che vacilla, sfidata da un nemico invisibile, subdolo e inedito? Mi prende l’imbarazzo e il pudore nei confronti di chi lavora in trincea. Ma poi mi dico: da sempre la gente ha fiducia in me, si attende che non vacilli, che offra ‘certezze’ e speranza, che mantenga il mio posto – in fondo, nelle battaglie questo è il ruolo dei ‘soldati semplici’. E allora, mi rinfranco puntando tutto sulla responsabilità sanitaria e insieme sociale che mi compete, alzandone l’asticella, aggiornandomi e di volta in volta modificando le mie risposte in base alle novità, alle scoperte. Una visione globale che ha radicalmente mutato il mio modo di pensare e agire in poche settimane. 

Mi sono dovuto adeguare anche con docilità alle direttive sanitarie e sociali, relegando critiche e interpretazioni personali di fronte a incongruenze e omissioni plateali. Non è il momento delle polemiche a buon mercato, degli arroccamenti, della saccenza che noi medici spesso abbiamo predicato. Ora occorre dialogare e collaborare come un corpus unico e unito tra tutte le forze mediche, riservando al dopo le proposte di cambiamento nell’organizzazione sanitaria. Una responsabilità mai sbandierata, ma vissuta come un dovere della professione. 

La docilità mai remissiva ma intelligente, capace di fermezza nel farsi sentire. Ma ancor più ora sento il dovere di esprimere una vicinanza umana, perché riesco a comprendere e condividere le fragilità dei miei pazienti così come io stesso le avverto (‘dottore, ogni tanto mi pare che mi manchi il respiro, quando devo preoccuparmi?’). Una vicinanza non retorica, ma fatta di gesti concreti, di una maggiore disponibilità, ascolto, comprensione. D’altra parte constato e apprezzo ancor più in questi tempi la riconoscenza e l’affetto che i pazienti mi riservano, preoccupati della mia salute, dei rischi che corro, del carico emotivo. Ancora una volta tocco con mano quanto sia fondamentale la relazione che abbiamo insieme costruito, dove la fiducia è pilastro e garanzia insostituibile. 

Dentro questa relazione so di giocarmi tutta la mia responsabilità. Saremo capaci di ricordarcene anche dopo, reciprocamente?

 

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