Nov 092019
 

08Caro direttore

Com’è noto il 25 settembre la Corte costituzionale ha fatto sapere di aver ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del Codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio di un paziente tenuto in via da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che reputa intollerabili ma capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Conosciamo tutti il dibattito che ne è scaturito, e che continua. Cosa dire davanti al dolore di una vita che non è più quella di prima, che sembra non essere più nemmeno la tua perché una malattia devastante e inguaribile te l’ha irrimediabilmente modificata? Cosa dire davanti a ore, giorni, settimane, mesi, a volte anni che non precedono una guarigione ma un declino più o meno lento, e la morte? Cosa dire davanti a un corpo, il tuo, che progressivamente non è più in grado di reagire, si irrigidisce, si paralizza, col respiro non più spontaneo, mentre la tua mente vorrebbe schizzare lontano, sopra le nuvole, al di là delle montagne, nell’infinito, perchè è viva come non mai? Cosa dire quando un cancro devastante non ti uccide subito ma ti distrugge giorno per giorno, ti sbeffeggia mandandoti in necrosi ora un dito, ora un piede, ora una mano, ora qualcosa all’interno di te, regalandoti un odore acre, che invade la tua stanza, il respiro tuo, dei tuoi familiari, dei  tuoi curanti? L’odore della morte, seduta sul tuo letto, che ti guarda, tranquilla, non ha fretta, sa che sarai suo, comunque. Ma soprattutto cosa posso dire io? Non sono un giudice, un filosofo, un politico…

Sono un medico che si occupa di malati inguaribili in un hospice dove, negli ultimi 18 anni, ho visto morire più di 3600 persone. La dimestichezza quotidiana con la morte può cambiare tante cose. All’inizio del mio lavoro in hospice certe parole – eutanasia, suicidio assistito – non volevo neppure sentirle nominare. Ora, anche se non potrò mai eseguire una richiesta eutanasia, non fuggo dal paziente che mi pone il problema. Cerco di capire cosa si nasconde dietro le lacrime, dietro il silenzio del paziente che ho di fronte.

Alcune settimane fa una mia giovane ammalata mi disse: “Aiutami a morire!”. Sedetti sul suo letto, la presi tra le braccia e la strinse forte, a lungo, e le sussurrai: “Non posso farti morire, ma posso tenerti stretta finchè questo momento non è passato. E se non passa, ti aiuterò a riposare un poco”. Morì dopo tre giorni, senza chiedere ancora. Quello che va bene per un ammalato però non può non essere adeguato per un altro dobbiamo personalizzare le terapie sui bisogni e i desideri di chi abbiamo di fronte, cosa non semplice da quanto la Sanità è stata aziendalizzata, quando invece che di corsie si parla di “filiere”, termine orrendo.

E allora? Mi viene in mente il brano del Vangelo di Matteo 25,31-46: “(…) Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare …” queste parole danno una dignità enorme all’uomo malato, che diventa l’artefice non solo del suo ma anche del nostro destino, perché la sua malattia diventa una straordinaria occasione d’amore, per lui, per lei, per ciascuno di noi. Un Amore infinito, che aiuta il malato e aiuta noi, un amore che redime, che ci redime e ci lancia nell’eternità, dove non c’è più paura, dolore, disperazione, rabbia, lacrime. Forse dovremmo concentrarci su questo. Personalmente cerco di farlo e mi aiuta ad andare avanti, con serenità e fiducia, nonostante tutto e tutti. scoprendomi un giorno dopo l’altro povero medico ma perdutamente innamorato dei suoi ammalati, e del suo lavoro.                                                     Di A. Goisis 

 

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