Apr 202019
 

enzo-bianchi Quest’anno, per una rara coincidenza di calendari, tutte le chiese – in oriente come in occidente, in situazione di persecuzione o di conflitto come in realtà di maggioranza, di integrazione o di tolleranza – festeggiano nello stesso giorno l’evento centrale della loro fede: la risurrezione di Gesù dai morti. Ma quale verità celebrano i cristiani nella notte di Pasqua, qual’è la “buona notizia” che dalle loro liturgie si dovrebbe diffondere anche verso quanti non condividono la loro fede? Nella sua essenza è un messaggio che parla di vittoria dell’amore sulla morte, questo segno per eccellenza della fragilità umana.

Ogni essere umano porta dentro di sé «il senso dell’eterno», come ricorda il saggio Qohelet, l’ansia di eternità, e tuttavia è costretto a constatare l’inesorabile presenza della morte come ciò che contrasta fortemente la sua vita. Con uno sguardo naturalistico, si può anche ammettere che la finitezza umana sia in qualche modo una necessità biologica, come lo è per ogni creatura; ma tale giustificazione non spegne dentro di noi il sentimento che la morte, proprio perché non permette che qualcosa di noi rimanga per sempre, minaccia fortemente il senso della nostra vita: la morte è la somma ingiustizia! Noi troviamo senso nella misura in cui sappiamo vivere gesti che restano nel tempo: ma se tutto passa, se tutto finisce con la morte, che senso ha la nostra esistenza?

È qui che entra in gioco la riflessione umanissima che ogni uomo e ogni donna fanno sotto il cielo, da sempre e in tutte le culture: vivere è amare. Tutti gli esseri umani percepiscono che la realtà indegna della morte per eccellenza è l’amore; quando infatti giungiamo a dire a qualcuno: «Ti amo», ciò equivale ad affermare: «Io voglio che tu viva per sempre». Può sembrare banale ripeterlo e tuttavia resta vero: la nostra vita trova senso solo nell’esperienza dell’amare e dell’essere amati, e tutti siamo alla ricerca di un amore con i tratti di eternità. Ora, la grazia di un libro come il Cantico dei cantici posto al cuore della Bibbia consiste proprio nel fatto che in esso si parla dall’inizio alla fine di amore umano. A conclusione del Cantico si legge un’affermazione straordinaria. L’amata dice all’amato: “Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio / perché forte come la morte è l’amore / tenace come l’inferno è lo slancio amoroso. / Le sue vampe sono fiamme di fuoco / una fiamma del Signore” (Ct 8,6-7).

Qui si raggiunge una consapevolezza presente in numerose culture, che sempre hanno percepito un legame tra amore e morte, tra éros e thánatos. La Bibbia, dal canto suo, ci illustra che amore e morte sono i due nemici per eccellenza: non la vita e la morte, ma l’amore e la morte! E la morte, che tutto divora, che vince anche la vita, trova nell’amore un nemico capace di resisterle, fino a sconfiggerla.

Con questo orizzonte in mente, riflettere sul senso della Pasqua significa allora porsi una domanda chiave: perché Gesù è risorto da morte? Una lettura intelligente dei Vangeli e di tutto il Nuovo Testamento ci porta a concludere che egli è risorto perché la sua vita è stata amore vissuto per gli uomini e per Dio fino all’estremo: «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» come ricorda Giovanni nel suo Vangelo. Gesù è stato risuscitato da Dio in risposta alla vita che aveva vissuto, al suo modo di vivere nell’amore fino all’estremo: potremmo dire che è stato il suo amore più forte della morte – quell’amore insegnato ai discepoli lungo tutto la sua vita e con tutte le sue forze, quell’amore divenuto così il comandamento nuovo: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” – a causare la decisione del Padre di richiamarlo dalla morte alla vita piena.

Se Gesù è stato l’amore, come poteva essere contenuto nella tomba? La risurrezione di Gesù è il sigillo che Dio ha posto sulla sua vita: resuscitandolo dai morti, Dio ha dichiarato che Gesù era veramente il suo racconto e ha manifestato che nell’amore vissuto da quell’uomo era stato detto tutto ciò che è essenziale per conoscere lui.

E’ in quest’ottica che possiamo comprendere anche il cammino storico compiuto dai discepoli per giungere alla fede in Gesù risorto e Signore. Cosa è successo nell’alba di quel “primo giorno dopo il sabato”? Alcune donne e alcuni uomini discepoli di Gesù sono andati al sepolcro e l’hanno trovato vuoto: mentre erano ancora turbati da questa inaudita novità hanno avuto un incontro nella fede con Gesù Risorto, presso la tomba, sulla strada tra Gerusalemme ed Emmaus, ai bordi del Lago di Tiberiade

Gesù non è apparso loro sfolgorante di luce, ma si è presentato con tratti umanissimi: un giardiniere, un viandante, un pescatore. Si è manifestato nella forma con cui lungo la sua esistenza aveva narrato la possibilità dell’amore. Per questo Maria di Magdala, sentendosi chiamata per nome con amore, risponde subito: “Rabbunì, mio maestro!”; i discepoli di Emmaus riconoscono Gesù nello spezzare il pane, cioè nel segno riassuntivo di una vita offerta per tutti; è il discepolo amato che lo riconosce presente sulla riva del Lago di Tiberiade e grida a Pietro: “E’ il Signore!”… Davvero la vita di Gesù è stata riconosciuta come un amore trasparente, pieno e quelli che lo avevano visto vivere e morire in quel modo hanno dovuto credere alla forza dell’amore più forte della morte, fino a confessare che con la sua vita Egli aveva davvero raccontato che “Dio è amore” altrimenti “non è”!

Forse è su questa speranza che cristiani e non cristiani possono ancora oggi ritrovarsi “per sentirsi un’altra volta”, per confrontarsi in nome di quel desiderio di amore più forte della morte che abita nel cuore di ciascuno.

 

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