Set 222018
 

“Roma hai riunito popoli diversi in una sola patria”. A cantare queste parole nel De reditu su, fu un certo Claudio Rutilio Namaziano, per esaltare la grandezza dell’Urbe come unica patria di genti di ogni terra. Roma, d’altronde, aveva dovuto confrontarsi, nella complessità geopolitica di 2000 anni fa, con realtà etniche, culturali e politiche assai diverse tra loro. Un’accolita, dunque di identità e di alterità da integrare che l’Impero, a modo suo, aveva assimilato grazie agli strumenti giuridici di cui si era dotato nel tempo, ma possiamo identificare l’Impero Romano come un esempio vincente d’integrazione dei popoli? Se da una parte è vero che la cosiddetta “Pax Romana” era impositiva e di matrice militare, di fatto essa realizzò un’assimilazione dei barbari (“stranieri”) che si estese gradualmente, arrivando ad accettare che al trono imperiale salissero personaggi provenienti da quasi tutte le province dell’Impero.  

Le classi dirigenti d’allora – etrusche, sannitiche, galliche o orientali – divennero così consortes imperii; un’assimilazione che generò una coesione nel milieu politico d’allora, tendenzialmente aristocratico. Il fatto poi che molti stranieri entrassero nelle fila delle legioni romane ebbe delle giustificazioni anche economiche, le stesse che portarono i barbari a sollevarsi contro Roma nel momento in cui le casse dell’Impero cominciarono a essere secche.

Viene spontaneo domandarsi se Roma sarebbe stata in grado di integrare al proprio interno il vasto areopago islamico che allora ancora non esisteva. Trattandosi di un monoteismo, le difficoltà non sarebbero mancate, proprio come nel caso delle chiese dei primi secoli. Le persecuzioni, infatti, avvennero perché l’autorità pubblica imperiale del tempo riteneva che la professione della fede cristiana fosse incompatibile con la tradizione politica e culturale della società romana. I cristiani, misconoscendo il politeismo, erano invisi alle autorità romane in quanto la loro dottrina si opponeva a una visione teocratica della religione statuale, al cui interno veniva riconosciuta l’origine divina del potere imperiale di Roma.

Anche se il mondo romano di allora era molto diverso dal nostro, è evidente che la Storia è sempre e comunque magistra vitae. Perché l’integrazione è un fenomeno estremamente complesso in cui lo Stato di Diritto è chiamato a svolgere un ruolo di mediazione nella gestione dei flussi migratori. Oggi, in un mondo fortemente globalizzato su base economica e non politica, il rischio è quello di circoscrivere la propria identità nei microcosmi, parcellizzando il tessuto sociale.

Un tema, questo, che si inserisce nell’attuale dibattito europeo che sempre di più verte intorno a parole chiave come identità, appartenenza, radici giudaico-cristiane, internazionalismo, nazionalismi, regionalismi. In questa prospettiva, la sfida, prim’ancora che sociale, politica o economica, è culturale. Secondo una recente indagine dell’Europarlamento, il 69 per cento dei cittadini europei ritiene che le misure d’integrazione dei migranti nelle società del vecchio continente siano un investimento necessario, e una percentuale analoga considera l’integrazione un processo bidirezionale per i migranti e per le società ospitanti. Ma solo una minoranza dei cittadini europei ritiene di essere ben informata sui temi della migrazione e dell’integrazione. Si tende poi a sopravvalutare la presenza nel proprio Paese di migranti provenienti da Paesi terzi: in diciannove Stati membri, la quota di migranti extra UE corrisponde alla metà, o meno, della loro quota stimata. E allora, se la Storia è maestra di vita, l’informazione rappresenta davvero uno strumento per contrastare il pressappochismo dei benpensanti, quelli dell’odierno Basso Impero.

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