Ott 062017
 

imagesSi discute, in Italia, se sia opportuno allargare il diritto di cittadinanza agli immigrati, diritto oggi concesso in modo selettivo e, quindi, difficile da ottenere. Sembra naturale che possano essere considerati cittadini italiani coloro che sono nati in Italia da genitori immigrati, o che vi sono giunti in giovane età e che hanno frequentano le scuole italiane, spesso con maggior profitto dei ragazzi autoctoni. Meno chiaro è come il diritto di cittadinanza possa essere esteso anche agli immigrati adulti, che hanno imparato più o meno bene l’italiano lavorando per noi.

Anche perché, in fondo, di cosa pensano le legioni di stranieri che ci circondano, e che ci aiutano ad affrontare la vita quotidiana, noi sappiamo proprio poco. Conosciamo qualcosa in più di quelli che finiscono sul giornale nelle pagine di cronaca nera, e che per fortuna sono una minoranza. Ma che cos’hanno in testa quelli – o più spesso quelle – che accudiscono i nostri bambini e i nostri anziani (badanti), no, non lo sappiamo quasi per niente. Tant’è vero che spesso i loro atteggiamenti vengono equivocati: la difesa può sembrare freddezza, la ricerca di condizioni di lavoro meglio remunerate, rapacità. Per dissipare questi equivoci, consiglio un libro firmato da un’immigrata moldava: Miei cari figli, vi scrivo (Einaudi), di Lilia Bicec, ex giornalista nel suo Paese e oggi badante in Italia. In 180 pagine la donna descrive le vicissitudini della fuga clandestina dalla sua terra, i primi contatti con l’Italia – un Paese, agli occhi di chi arriva, composto quasi solamente da stazioni dove gli immigrati si danno appuntamento e si ritrovano la domenica -, la solidarietà immediata ma spesso ambigua dei conterranei incontrati nel Paese di immigrazione. E, infine, la delusione di non aver trovato conforto neppure al rientro in patria, quando Lilia viene taglieggiata dai doganieri e assalita da amici e parenti. Sono tutte esperienze ed emozioni che il lettore potrà seguire dal punto di vista di chi le ha davvero vissute. Nel suo libro Lilia Bicec ci fa scoprire realtà che non avremmo mai immaginato. Racconta di quando capì che avrebbe dovuto lasciare la propria casa e il proprio Paese alla ricerca di un lavoro. E di quando, appena arrivata in Italia, dovette ricorrere alla rete dei compatrioti immigrati per trovare occupazione. Lilia è costretta a fidarsi, e spesso paga prezzi salati, altre volte scopre reti di solidarietà che funzionano veramente. Anche i rapporti con i datori di lavoro italiani sono complessi e vari: a persone gentili e generose si susseguono ricchi che lesinano il cibo, o uomini che allungano le mani. E’ un destino difficile quello di Lilia Bicec, ma negli anni precedenti al viaggio in Italia, in mezzo ai cataclismi politivi moldavi, la donna si era già temprata: “Per me è naturale lottare, e ogni ostacolo mi rende più forte, ogni caduta mi spinge a rialzarmi”, ammette l’autrice nel suo libro. Sulla regolarizzazione degli immigrati, Lilia non ha dubbi: “Per noi significherebbe nascere una seconda volta”, non sentirsi più stranieri, cioè tollerati solo se utili. Ma la sofferenza vera, quella che non trova mai consolazione, è la lontananza dai figli ancora bambini rimasti in Moldavia. I brani più toccanti del libro sono rivolti a loro, destinatari immaginari di lettere non spedite, per i quali ogni sforzo acquista un senso: “Mi mancate così tanto. Spesso, quando cammino per strada, cerco i vostri volti, i vostri capelli, cerco dei bambini che vi somiglino. Li guardo a lungo, poi giro la testa e a occhi chiusi penso a voi”. Dopo avere letto questo libro, guardiamo le donne straniere che accudiscono i nostri anziani e i nostri bambini con altri occhi, con più comprensione ed empatia, e possiamo pensare alla cittadinanza con meno paura e più generosità. Ma soprattutto con maggiore fiducia: è questo il bene di cui abbiamo bisogno per poter fondare un’armoniosa convivenza.    

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