Set 162017
 

la-scuolaNegli ultimi mesi la nostra coscienza è stata devastata dalla consapevolezza di non avere fatto nulla per arrestare la terribile tragedia che si è consumata a poche centinaia di metri dalle nostre coste. Non voglio entrare nel merito dell’enorme problema dell’immigrazione nel nostro Paese e della necessaria revisione delle leggi che la regolano. Desidero invece immaginare per un momento che, come per magia, l’immigrazione non rappresenti più un problema giuridico e organizzativo e che i bambini dei nuovi arrivati trovino posto nelle nostre strutture scolastiche.

Mi chiedo allora se, in questo caso, non si presentino altri, sia pure meno laceranti, problemi di tipo  psicologico e pedagogico. Non si tratterebbe più, allora, di accoglienza ma di integrazione, parola dai molti significati che può evocare sia scenari di adeguamento alla cultura dominante sia fruttuosi scambi tra individui portatori di idee, tradizioni e valori diversi.

Il ricordo di un’esperienza da me fatta in prima persona molti anni fa, in occasione della grande immigrazione di operai meridionali al Nord, mi ha fatto riflettere. Si trattava di una situazione del tutto diversa da quella che si può verificare oggi in seguito all’immigrazione di stranieri, ma molti elementi allora presenti potrebbero ripresentarsi.  Avevo avuto modo di constatare, oltre al malcelato rifiuto della popolazione ospitante, alcuni problemi relativi alla vita scolastica. Da un lato le famiglie del luogo tolleravano poco la presenza di bambini “diversi” nelle classi dei loro figli – la stessa cosa si verifica, purtroppo, anche oggi – dall’altra molti insegnati avevano adottato come unica strategia quella di fare in modo che i nuovi arrivati, la minoranza si uniformassero in tutto e per tutto al comportamento della maggioranza. Le osservazioni psicologiche condotte per diversi anni nelle scuole di una città del Nord mi rivelarono un fenomeno imprevisto, ma significativo. I piccoli calabresi, siciliani e pugliesi al loro arrivo manifestavano difficoltà linguistiche notevoli nei compiti che la scuola sottoponeva loro e, al tempo stesso, calore ed espressività, se si permetteva loro di ricorrere, almeno in parte, al dialetto di origine. Ricordo ancora quei piccoli componimenti pieni di errori di ortografia e di grammatica, ma ricchi di emozioni e osservazioni. Nel giro di tre-quattro anni le cose si capovolsero. I bambini avevano appreso alla perfezione la lingua italiana, ma i loro temi erano un condensato di luoghi comuni e di conformismo. Credo allora che un vero processo di integrazione sia qualcosa di diverso, di cui devono avvantaggiarsi sia la maggioranza che la minoranza, sulla base di una conoscenza reciproca di usi, di abitudini, fedi religiose, che prescinda da qualsiasi pregiudizio e inviti a una scoperta gioiosa dell’altro. Il compito degli insegnanti diventa a questo punto fondamentale. Ne ho avuto di recente la prova attraverso un video girato nella scuola dell’infanzia “Giotto” di Firenze dal titolo significativo Girotondo giramondo. In una sezione che ospita bambini provenienti da sette Paesi diversi, dall’Olanda al Bangladesh, dagli Stati Uniti all’India, le insegnanti hanno messo in piedi un progetto straordinario. Tutti i bambini, immigrati e non, hanno imparato canzoni, poesie e filastrocche in lingue diverse dalla propria, scoprendo nel contempo la posizione dei diversi Paesi sul mappamondo. Le loro facce sono state la verifica più eloquente della bontà del progetto. E poi, eccoli scoprire che ogni Paese ha la sua bandiera e che lingue diverse si scrivono con segni diversi. Per finire in bellezza: alla festa aperta anche ai genitori tutte le tavole erano imbandite con le pietanze profumate e colorate dei Paesi rappresentati. Ecco forse la ricetta vincente: l’integrazione non può prescindere dalla gioia.   

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