Nov 242023
 

LE RADICI

DELLA

SOPRAFFAZIONE

I bambini usano i simboli degli ambienti in cui sono cresciuti: tra gli ostacoli a una comprensione delle radici della sopraffazione. Di genere e di tutti i generi, e quindi a una radicale cura, vanno annoverate le letture che in questi giorni alcuni “autorevoli” uomini politici hanno fatto della tragedia di Giulia e Filippo.

La prima è quella del bravo ragazzo che «non avrebbe mai potuto» e che invece, se ha potuto, è perché è stato colpito da raptus. La seconda è che è una questione di Dna, che prima o poi si rivela: il Dna dello squilibrato. Entrambe le letture sono accomunate dall’elusione della responsabilità sociale di quanto accaduto. Le radici profonde della sopraffazione affondano infatti nella cultura trasmessa di generazione in generazione, a partire dalla prima infanzia. Risiedono negli stereotipi che ragazzi e ragazze acquisiscono fin da piccoli e che vedono il sessismo pian piano prendere posizione nei nostri schemi mentali e comportamentali, sia nella sua versione ostile (le femmine sono inferiori ed è giusto che vengano sopraffatte) che nella sua versione benevolente (le femmine sono inferiori e vanno protette). I comportamenti improntati al sessismo, come tutti gli altri, prendono forma iniziale a partire dal secondo-terzo anno, per poi assumere gradualmente connotazioni più chiare con l’età, ed essere ormai pienamente espressi tra la fine del ciclo della scuola primaria e la secondaria di primo grado. Si tratta quindi sì di una questione ereditaria, ma di quella ereditarietà che non sta scritta nel codice genetico ma in quello culturale, perché i bambini adottano gli artefatti, i simboli e le istituzioni in cui sono nati e cresciuti. Le forme della socialità non derivano dai geni, ma si creano socialmente. Si ereditano i propri ambienti non meno di quanto si ereditano i propri geni. E da chi, se non dai propri genitori prima e dagli altri spazi sociali in seguito? I padri, e pure le madri, propongono questi schemi di pensiero e comportamento ai propri figli fin dal colore del fiocco appeso alla porta, un fiocco che non farebbe male a nessuno se non portasse implicito il messaggio identitario per eccellenza: tu, femmina, impara che tra le tue mansioni c’è quella di servire, e anche di piangere e di farti coccolare; tu, maschio, impara che tra le tue mansioni c’è quella di essere servito, di imparare a non piangere e a non farti coccolare troppo. E quindi tu, femmina, dai una mano in cucina, tu maschio gioca a pallone con papà; tu avrai le bambole e la cucinetta, tu le scavatrici e le spade miracolose. 

Forse pensavamo che lo scorrere delle generazioni facesse lentamente evolvere tutto questo, invece vi è una recrudescenza, tra adolescenti e giovani adulti, di una visione del maschile e del femminile che si riteneva essere un retaggio del passato. Perché? I motivi sono diversi. Comprendono sia l’ondata di restaurazione, prima nei costumi e poi nei diritti civili, in atto in molti Paesi, occidentali e non, che riflette, opponendosi, l’evoluzione degli stessi. Sia, e forse soprattutto, la pervasiva azione dei social, dove il “cattivismo” (violenza, insulto, derisione) trova facile strada di diffusione. Il quesito che ci si deve porre è se una socialità più empatica, rispettosa, solidale può far parte dell’eredità culturale che lasciamo ai nostri bambini, poi ragazzi, poi giovani: al maschile, al femminile, all’umano non binario. Oggi una minoranza dei commenti dei politici ha sottolineato l’importanza di un approccio culturale. Ma occorre andare oltre la superficie: le radici sono profonde proprio perché hanno origini storicamente antiche e ontologicamente precocissime e nell’età della scuola sono già sviluppate. Occorre partire prima, molto prima. La questione del maschile e del femminile dovrebbe entrare a far parte dei percorsi di preparazione alla genitorialità. I papà dovrebbero essere facilitati a scoprire il proprio lato empatico e affettivo fin da prima della nascita, alla nascita e subito dopo: partecipare alle ecografie, al parto, tenere il neonato in braccio e lasciare che cresca un po’ di più l’ossitocina che comunque sono capaci di produrre.

Giochi, storie, illustrazioni proposti ai bambini dovrebbero, pur nella libertà piena di espressione, poter essere letti anche nei messaggi che trasmettono sui rapporti tra le persone e i generi. E, certo, comprensione, rispetto e regolazione affettiva dovrebbero trovare spazio nelle attività educative, e quanto già si fa in questo settore trovare maggiore diffusione e minore opposizione preconcetta. L’inasprimento delle pene non servirà a trattenere chi non sa trattenersi.

Giorgio Tamburlini Pediatra, Presidente del centro per la salute del bambino (da: Avvenire 21/11/2023)  

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